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L’Aquila e la sentenza. Quel che dovrebbe essere e invece non è.

di Marco De Ponte

Ho preferito non inserirmi immediatamente nella girandola di commenti alla sentenza di secondo grado della Corte d’appello, che ha assolto i componenti della Commissione Grandi Rischi, perché era corretto leggerne le motivazioni, per riflettere in maniera documentata. E, in fondo, anche perché se si commenta una sentenza si finisce per doverle commentare tutte e si rischia la chiacchiera poco costruttiva (come avvenne dopo il primo grado sui giornali di mezzo mondo).

Oggi però, a fronte di alcuni passaggi di quelle 389 pagine ed al loro contenuto generale, non posso evitare di affermare, ancora una volta e con più forza, la vicinanza alla comunità aquilana e ai parenti delle vittime in particolare. Perché, al di là del caso giudiziario e del rispetto anche di chi è stato assolto, tutto si è fatto in quei mesi precedenti al sisma dell’aprile del 2009, tranne che una corretta analisi delle vulnerabilità ambientali e ancor meno una corretta comunicazione del rischio.

L’unica vera riflessione costruttiva è su quel che dovrebbe succedere e non succede, al di là delle persone.

La prevenzione è “costruire bene”, investire in opere di messa in sicurezza del territorio, ma è anche “educare” la cittadinanza alla conoscenza del proprio territorio, a riconoscerne le vulnerabilità, a non ignorarne i rischi. Questo a L’Aquila, come a Haiti, o in qualsiasi altro luogo “a rischio” del pianeta. Una buona prevenzione, fatta anche di una buona comunicazione dei rischi, spinge le comunità a una maggiore resilienza, a saper affrontare e reagire alle emergenze, e anche a rispettare il proprio territorio, essendo i cittadini in primis antenne vigili (e dunque responsabili essi stessi) contro l’abusivismo, gli impatti ambientali di opere o le abitazioni, le scuole, i luoghi pubblici, costruiti “al risparmio” in termini di sicurezza.

Una prevenzione seria e sostanziale  può essere possibile, solo riportando le persone al centro dello sforzo. Rendendole protagoniste e non spettatori inermi di comunicazioni “dall’alto”.

Tornando alla sentenza, assoluzioni o meno, penso che L’Aquila deve ancora continuare a comunicare con vigore la propria esperienza al Paese e al sistema-Italia. Gli errori compiuti nella sottovalutazione della comunicazione alla cittadinanza non devono ripetersi più. Mai più. Gli aquilani lo sanno per esperienza e non vorrebbero che altri dovessero imparare certe cose sulla propria pelle.

E’ il momento di svegliare, non ignorare la nostra fragile Italia. Per salvare vite, per rendere le nostre città e le nostre campagne luoghi più sicuri dove vivere e far crescere i più piccoli, la nostra “Italia del Futuro” va ascoltata, fatta partecipare, responsabilizzata.

A L’Aquila, ActionAid si appresta a iniziare la seconda annualità del progetto “IoSonoQui” per sperimentare la metodologia dell’Analisi Partecipativa delle vulnerabilità ambientali. E’ un tassello piccolo, che aiuterebbe i comuni a rischio idrogeologico, sismico e ambientale a coinvolgere le popolazioni nella conoscenza e nel rispetto del proprio territorio. La migliore risposta civile a quanto accaduto a L’Aquila sarebbe quella di moltiplicare queste buone pratiche. Perché una popolazione spaventata non venga mai più lasciata sola, come, purtroppo, è accaduto nel capoluogo abruzzese, sei anni fa. E certamente perché nessuno venga tranquillizzato mettendo la testa sotto la sabbia (specie nei luoghi in cui si costruisce sulla sabbia).

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