Mondo

Etichette, UE: i prodotti delle colonie non sono “made in Israel”

di Marco De Ponte

L’ altro ieri in serata, le prime pagine dei media italiani ma anche i social riportavano le dichiarazioni dei diversi rappresentanti del governo israeliano contro la decisione della UE di etichettare le merci esportate da Israele in Europa ma prodotte nei territori occupati dopo il 1967. Linee guida che seguono il dovere dell’Unione di rispettare il diritto internazionale, diritto che appunto non riconosce gli insediamenti come territorio dello stato di Israele. In pratica queste merci non potranno più essere etichettate come “made in Israel”, se destinate all’export verso paesi europei. Un obbligo che toccherà l’intera filiera dalla produzione alla distribuzione.

Meno chiaro sui media è il legame tra questa misura e ciò che di fatto l’ha causata. Nonostante la stessa UE si sia affrettata a dichiarare che non si tratta di una questione politica, deve però essere sottolineato che l’occupazione da parte dei coloni, con il supporto del governo di Israele, è illegale secondo il diritto internazionale e che la UE non ha mai riconosciuto né la Cisgiordania né Gerusalemme come parte di Israele. Una questione che il premier Netanyahu non discute mai con l’Alto Rappresentante Federica Mogherini né con altri rappresentati dell’Unione, perché lo smantellamento dello status quo non è nei suoi piani, nonostante faccia sempre appello al “processo di pace”.

Alla base del mancato processo di pace, c’è chiaramente anche l’occupazione e il governo di Israele continua semplicemente a costruire insediamenti. E questo ha un nesso, nonostante si preferisca una lettura semplificata e banalizzante degli eventi, con l’esasperazione dei palestinesi nei territori occupati e con la conseguente escalation di violenza delle ultime settimane. Escalation che ha avuto il suo centro proprio a Gerusalemme Est e a Hebron, le due aree dove i coloni vivono nel cuore della popolazione palestinese, protetti da soldati armati e dove quindi l’occupazione è più intollerabile.

L’alto numero delle violenze e delle chiusure a Hebron, dove ActionAid è presente e lavora, ha reso ancora più impossibile la vita dei palestinesi in questa città, la città fantasma: una città il cui centro dal 2000 a oggi ha visto chiudere almeno 1800 attività commerciali, e che oggi vede il 77% dei residenti palestinesi vivere sotto la soglia di povertà. Viste le continue violazioni portate avanti in Cisgiordania (restrizioni al movimento, esecuzioni extragiudiziali… ) contro il diritto internazionale, l’etichettatura è davvero il minimo che la UE poteva fare per fermare un sistema (quello dell’occupazione) che rende stabili e permanenti gli insediamenti sulla terra di proprietà dei palestinesi.

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