Di una cosa sono certa: quel che di buono il nonprofitproduce passa il più delle volte sotto silenzio. Ed è un vero peccato perché, al contrario, meriterebbe una più giusta attenzione, sia economica che di visibilità.
In economia c’è un termine che mi piace in modo particolare e che ben si addice alle attività promosse dal Terzo Settore: esternalità.
Un’esternalità – come si legge su Wikipedia – si manifesta quando l’attività di produzione o di consumo di un soggetto influenza, negativamente o positivamente, il benessere di un altro soggetto, senza che quest’ultimo riceva una compensazione (nel caso di impatto negativo) o paghi un prezzo (nel caso di impatto positivo) pari al costo o al beneficio sopportato/ricevuto.
Detto in altri termini, l’esternalità indica l’effetto che un’attività ha su soggetti che non hanno avuto alcun ruolo attivo. Si pensi, ad esempio, a come la cura del verde di un’aiuola di quartiere da parte di un esercizio commerciale della zona migliori la percezione del quartiere stesso. In particolare, mi riferisco alle esternalità positive che si manifestano quando i soggetti beneficiari di impatti positivi prodotti da un altro soggetto non corrispondono un prezzo pari ai benefici ricevuti.
Dipendente da un’attività economica individuale, l’esternalità non è assimilata alle merci ed è pertanto priva di un prezzo di mercato.
Questa è una delle eredità dei corsi di economia politica e della cultura e dell’arte seguiti all’università e che mi fa immediatamente intuire la relazione esistente tra esternalità e attività nonprofit. Provo a illustrare: come nel primo caso (quello delle esternalità), anche in quest’ultimo (settore nonprofit) esiste uno scambio ma questo scambio non è mai compensativo. Ovvero, a un’attività erogata pari a 100 segue un valore mai pari, tale per cui sorge la necessità di mettere in atto attività che ne consentano la copertura. Ed è qui che entra in gioco il fundraising. La complessità sta appunto nel cercare di definire e valorizzare questo gap.
In linea con quanto esposto, sono dell’idea che un fundraiser riesca a ottenere il massimo dei risultati se è in grado di affinare, allo stesso tempo, due abilità complementari:
1. l’abilità di dare un valore ai propri progetti d’impresa rendendoli facilmente misurabili ed economicamente quantificabili (ne abbiamo parlato qui);
2. l’abilità di far vedere quello che non c’è, valorizzandolo e proiettandolo nel lungo periodo (LP).
Due aspetti che fanno la differenza tra urgenza e sostenibilità; tra progetti grandi (non sempre dal punto di vista della consistenza e spesse volte dispersivi) e grandi progetti (concreti, capaci di fare la differenza e di rispondere a bisogni reali). In una parola, è importante imparare a valorizzare l’impatto che l’attività sociale e il nostro stesso lavoro producono in termini reali.
A mio modo di vedere, abituarsi a fare questo provocherebbe una contaminazione positiva involontaria capace di mettere in moto un virtuosismo da effetto domino davvero interessante. E da qui, naturalmente, risulterebbe davvero molto più semplice quantificare l’intangibile fino a riconoscere, altrettanto semplicemente, il ruolo da discriminante che il Terzo Settore ricopre nelle politiche di Welfare. E noi, operatori e professionisti del sociale, non più considerati figli di un dio minore.
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