Un post di una collega attira la mia attenzione su un articolo di Cristina Nadotti su Repubblica.it. Da L’importanza di sporcarsi le mani riporto testualmente e invito alla lettura per una visione d’insieme:
C’è la catastrofe, facciamo un numero sul telefonino, mandiamo dei soldi. C’è sempre, c’è ancora, per fortuna, tanta gente che si muove di persona e lo dimostra quanto sta accadendo in Sardegna, dove sono arrivati con pale e stivali di gomma a tirare via il fango, dove chi non è stato colpito dall’alluvione ha messo a disposizione le case e sta raccogliendo i lettini per l’asilo nido che ha perso tutto, le coperte, qualunque cosa può servire. Ma il grosso dell’aiuto, quello delle grandi aziende, è fatto soprattutto di sottoscrizioni, di quei due euro via sms. Non voglio entrare nel merito della fine che faranno quei soldi, ma l’aiuto, quello vero, ha bisogno di mani che fanno, di gente che si guarda negli occhi, di rapporti che si costruiscono anche in situazioni così drammatiche. Perché i rapporti restano e aiutano a non dimenticare quanto è successo.
E questo è uno.
Qualche giorno prima, Marina Sozzi, collega fundraiser ed amica, scrive su Il Fatto Quotidiano:
(…) non sempre (…) il denaro è stato impiegato in modo efficace (…). Avete idea della complessità di far arrivare così ingenti soccorsi dove servono? Fondi peraltro non sempre raccolti in modo coordinato? – e conclude – In genere, noi siamo portati a donare di più quando c’è un’emergenza. Le immagini dei morti e dei profughi provocati dalle catastrofi inducono in noi una profonda compassione, un’identificazione con chi soffre per ragioni che nulla hanno a che fare con la loro responsabilità. (…) Tuttavia, quanti di noi seguono veramente cosa accade del nostro denaro nelle zone colpite? Quanti si occupano di scortare il percorso delle loro donazioni? Quanti pretendono una precisa rendicontazione di come è stato speso il denaro?
E questo è due.
Ogniqualvolta si parli di calamità e di raccolta fondi per eventi straordinari, torna prepotente la questione dell’affidabilità e del sospetto. Insomma, la cosa puzza. Sempre e allo stesso modo. Poi sempre e allo stesso modo, torna in una sorta di silenzio, mai totale perché un rumore di fondo – quasi un mugugno – persiste.
E questo è tre.
Accountability e trasparenza. In altre parole, è necessario alimentare onestà, correttezza, fiducia. Sono questi gli aspetti di cui ogni ONP deve occuparsi e impegnarsi seriamente. La missione non è – e non può essere – un alibi. In nessun caso. Ci sono due cose che dobbiamo imparare a fare per recuperare la credibilità che la maggior parte di noi si merita: documentare e rispondere, sia fuori che all’interno naturalmente. Fatti supportati da documenti e parole sostenute da argomenti credibili e non solo verosimili. Senza il vincolo della giustificazione, raccogliere diverrebbe (forse) un pochino più semplice.
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