Nel corso degli ultimi mesi è cominciata la mia collaborazione con alcune università e scuole di formazione. Insegnare a giovani (ma anche meno giovani) cosa sia il fundraising e cosa significhi farlo bene è una cosa che mi piace molto. Non si tratta solo di insegnare qualcosa, per quanto mi riguarda. Si tratta di educare a qualcosa: educare a un settore e a un giusto approccio a esso perché credo che solo partendo dalla giusta comprensione delle dinamiche e dalla giusta prospettiva che si può riuscire a fare la differenza. Diversamente, tutto diventa molto più faticoso, più di quanto già non sia, e i risultati restano sempre trascurabili o comunque marginali.
Ora: di nonprofit si può anche vivere.
A volte più timidamente e a volte più esplicitamente, mi viene chiesto come e se vengo pagata per il lavoro che svolgo o se la mia è una scelta “volontaria”. Mi pare evidente che ci sia l’interesse di capire se una professione sociale, in particolare se legata alla comunicazione e al marketing – spesse volte viste più come vezzo che come reale necessità -, possa o meno essere considerata professione e, quindi, retribuita. Più maliziosamente, c’è l’interesse di capire se la remunerazione del fundraiser debba essere commisurata ai risultati, se sia giusto legarla a questi e se parte di quanto raccolto per un progetto serva, in realtà, a retribuire il professionista.
Sono tre i ragionamenti che porto in risposta a queste domande.
Il primo ha a che vedere con il vincolo del “non orientamento al profitto”. Questa variabile, che non significa gratuità sempre e comunque, vuole invece significare che gli eventuali utili vanno reinvestiti nell’attività d’impresa (sociale) senza distribuzione (se non limitata e prevista per legge, s’intende). E’ un aspetto di cui tenere conto e che non sempre è così chiaro. La professionalità e la continuità sono elementi che devono trovare corrispettivo alla stregua di qualsiasi altro mestiere. Solo attraverso la professionalità e la continuità si riescono a ottenere risultati costanti e via via crescenti. Solo attraverso di questi si raggiungono gli obiettivi di impresa.
Il secondo ha a che fare con i costi di struttura e si lega al rischio d’impresa. Su chi deve ricadere il rischio d’impresa? Io non ho dubbi in merito: sull’imprenditore (sociale, in questo caso). Ognuno si assume i propri e non è né etica né imprenditoriale l’idea di scaricare sul collaboratore la responsabilità dei risultati. Poi, naturalmente, l’accordo è tra le parti. Assistiamo quindi a compromessi che prevedono spettanze a percentuale sul raccolto effettivo. Ma questi comportamenti – scorciatoie devianti e pessime, a mio modo di vedere e reputazionalmente parlando se applicate dal fundraiser – non solo minano la nobiltà della professione ma sono scorrette perché contro il lavoro “gratis” non c’è competizione che tenga. Comunque, che ognuno scelga quel che è meglio per sé, seppur con la consapevolezza dell’impatto che questo genera nel suo complesso e delle responsabilità che gli sono proprie.
Un’ultima considerazione è legata alla maturità professionale: la gavetta è necessaria, senza dubbio, perché non si creda basti un titolo di studio per affermarsi fundraiser. E’ tutto molto più difficile di come sembra. Ci vuole tempo. Ci vuole esperienza. Ci vuole l’umiltà di imparare. Bisogna quindi lavorare su di sé e questo prevede investimento. Ma dopo un percorso fatto di gavetta e compromessi, occorre scegliere cosa fare della propria vita e come farlo. Perché quanto fatto ha un prezzo e concorre a formare il patrimonio professionale che il professionista porta in eredità all’organizzazione che chiede il suo contributo. E’ un valore intangile che può essere misurato diventando, dunque, tangibile; alto o basso quale sia – questo dipende – ma è comunque economicamente valorizzabile.
Quindi, sì, come in altri campi, di solo nonprofit si può anche vivere.
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