Sulla parola

di Gianfranco Marocchi

La settimana scorsa ero a Salerno per l’ultima tappa territoriale del XIII Happening della Solidarietà, ora manca solo l’evento finale di Catania previsto per il 13-15 dicembre. Dopo 10 giornate passate tra Sicilia, Puglia, Calabria e Campania, qualche riflessione sulle parole.

Un Happening, infatti, così come altre occasioni similari, è infatti in primo luogo un evento di parole: parole ascoltate da un relatore, scambiate in un gruppo di lavoro o a margine, in un contesto informale, accompagnate ad immagini in un video proiettato o infine parole dette davanti ad un microfono, come anche a me in questo giro  (pur con molta parsimonia)  è accaduto.

È cambiato l’atteggiamento verso le parole da quando, ormai una ventina d’anni fa, ho iniziato a interessarmi di questi temi, è cambiato nel nostro piccolo mondo ed intorno a noi.

Vi sono modalità comunicative che ogni anno appaiono più affaticate. Il seminario, l’assessore che saluta, il presidente che accoglie e ringrazia, il politico che declama non hanno più nessun richiamo. La gran parte dei presenti si annoia, si divide tra chi è lì per precetto e chi per vedere chi c’è e compiacersi a seconda dei casi delle presenze o delle assenze. E’ la parola svuotata, che non comunica più perchè è scissa dal suo signficato.

Mi viene alla mente anche, passando alla comunicazione televisiva, l’uguale stanchezza della parola nei talk show, per me ormai inguardabili (e ormai da qualche anno disertati): la parola superficiale, confusa, incomprensibile, scontata.

Vi sono momenti invece in cui la parola emoziona. Mi è capitato molte volte in queste settimane di Happening,  tappa dopo tappa e, devo dire, in tutte le tappe. Certo, alcuni interventi eccellenti di relatori di richiamo, ma in altri casi anche utenti o loro familiari, cooperatori, giovani che stavano inziando un’attività, insomma, nomi che, stampati su una brochure, non ci avrebbero indotto a prendere parte all’evento. In tutti questi appuntamenti, almeno in alcuni momenti, si è sentita la forza dirompente della parola che comunica autenticamente, in modo non scontato, non prevedibile, la parola che scopre un pezzo di vita della persona da cui è nata, la parola che sorprende e che a volte infastidisce. La parola che sa emozionare.

La parola non è morta. Ripassando alla “grande” comunicazione, se la gente sta attaccata con il fiato sospeso per delle mezz’ore ai racconti di Saviano o al teatro civile di Paolini – cioé, nell’era degli effetti speciali, allo spettacolo meno spettacolare che c’è: un tizio da solo che parla in una stanza vuota – un motivo ci sarà.

La parola, quella autentica, sta bene; la parola parlata per secondi fini – posizionamenti, equilibrismi, tatticismi, pavoneggiamenti, egocentrismi – fortunatamente non se la considera più nessuno.

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