Sono due settimane che non andavo in carcere a Opera. Ero in Uganda per lavoro, dove Luciano Valla di Avsi nel fine settimana va nel carcere minorile di Kampala con un gruppo di amici per far passare il tempo ai ragazzini in attesa di giudizio. Organizzano balli, letture e piccole attività. La prossima volta ci vado anch’io.
Oggi piove a Milano. Il marciapiede del posteggio del carcere è impreziosito da un filare di papaveri corallini e stropicciati dall’acqua. Oltre le mura, l’erba del giardino è pettinata e perfettamente in ordine. L’hanno appena tagliata. Qua e là qualche rosa a cespuglio sembra dipinta di rosso.
E’ l’ora delle visite, dei “colloqui” come li chiamano qui. Sono soprattutto donne. Donne come quelle che fuori vengono ammazzate, stuprate o sfigurate. Un esercito di madri, mogli, sorelle con le magliette colorate e attillate, gli ombrelli e i jeans. Alcune hanno il capo velato. Tutte fanno la coda per entrare. Prima un cancello, poi un altro ancora. Controlli. Un’altra porta si apre e un portone si chiude. Un altro controllo. In una mano tengono le borse enormi di plastica intrecciata con le cose buone da mangiare, dall’altra i figlioletti. Non sono più alti dei cespugli di rose e stanno entrando per vedere papà. Padri che a volte non usciranno più. Uomini che non vedranno mai andare in bicicletta i loro figli.
Dall’Africa ho portato una piccola capanna a Tropi, messa insieme con le foglie di banano. Una casa. Ora è sul pennacchio della macchina per cucire. Accanto, il pulcino di Pasqua. «Sto cercando i miei figli» mi ha detto Tropi in un sussurro. Ogni tanto proviamo a parlarne, ma senza andare troppo lontano. Vorranno ancora vederlo? Sembra molto preoccupato. «Mi stanno aiutando i miei fratelli. Li stiamo cercando. Chissà se avrò mai il coraggio di dire loro qualcosa». Forse basterebbe saper chiedere perdono. Forse basterebbe provare ad abbracciarli e dire loro vi ho comunque voluto bene. «E se loro non mi vogliono più?». Credo valga la pena rischiare.
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