Ha avuto un vero e proprio effetto di spaesamento, mentre eravamo intenti a capire la tragica evoluzione del colpo di Stato dei militari egiziani, leggere la nota del Consiglio supremo di difesa italiano che – in risposta alle votazioni alla Camera dei Deputati sugli F-35 – vuole esautorare il Parlamento dalla sovranità deliberativa in materia di spese per gli armamenti. Una nota preoccupante emessa da questo organismo convocato e presieduto dal Presidente della Repubblica, al termine della riunione alla quale ha partecipato, oltre al Capo di stato maggiore della Difesa, anche mezzo governo (ma – si badi – non il ministro Kienge che ha la delega sul Servizio Civile Nazionale, cioè sulla difesa civile della Patria).
L’Italia è una Repubblica parlamentare, dove i nostri rapprentanti esercitano il potere legislativo in nome del popolo italiano (se non in “casi straordinari di necessità e d’urgenza” nel quale questa competenza è assunta temporaneamente dal governo) senza limitazione di temi, anzi – specifica la Costituzione – “ciascuna Camera può disporre inchieste su materie di pubblico interesse”. Non esistono ambiti sottratti alla giurisdizione del Parlamento, nè civili nè militari.
E’ semmai il Parlamento che, da sempre, è fin troppo timido nei confronti delle questioni della Difesa, avallando – spesso senza discussione – decisioni militari già prese altrove: dal rituale rifinanziamento delle missioni di guerra (non dimentichiamo che truppe italiane occupano ancora, manu militari, una porzione di territorio afghano) alla consueta protezione del comparto militare dai tagli alla spesa pubblica, dalle spese per il riammodernamento dei sistemi d’arma all’acquisizione di nuovi, micidiali e costosi strumenti di morte, fino alla diversificazione dei budget finalizzati ai militari anche su capitoli civili come lo “sviluppo economico” e la “ricerca”. Sottraendo comunque, a questo scopo, preziose risorse altrimenti disponibili per la difesa dei diritti civili e sociali costituzionali, costantemente sotto la minaccia dalla precarietà, dalla povertà, dalla disoccupazione, dalle mafie e così via.
Eppure la Costituzione parla chiaro: l'”Italia ripudia la guerra” sotto qualunque forma. Dunque sono proprio le spese militari, “mezzo” e “strumento” di guerra, per loro natura sul filo di una dubbia costituzionalità, che dal Parlamento andrebbero esaminate minuziosamente, vagliate accuratamente una per una, bocciando senza appello almeno quelle a chiara vocazione offensiva, proprio come i cacciabombardieri F-35, capaci di trasportare (invisibili ai radar) armi nucleari in territori lontani. Il più minaccioso e gigantesco progetto di riarmo mai realizzato, attentato permanente alla pace.
Per troppo tempo nel nostro Paese (e non solo) si è verificato il meccanismo descritto dal politologo tedesco Ekkehat Krippendorff ne “Lo stato e la guerra” (Gandhi edizioni, 2008) secondo il quale i cittadini nell’osservare i sistematici preparativi bellici dei global player si sono cullati “nell’illusione ingenua che i nostri capi di Stato e i loro, intelligentissimi e, dal punto di vista tecnico, qualificatissimi aiutanti militari, non intendevano seriamente i loro progetti” ma si muovevano, appunto, da giocatori in una partita per il prestigio globale. Oggi, mentre “la storia dello Stato e della guerra ci insegna piuttosto il contrario”, ossia che nell’82 % dei casi la corsa agli armamenti conduce alla guerra, e una crisi economica senza precedenti sta facendo precipitare consistenti fasce di popolazione nella povertà, gli stessi cittadini chiedono di poter andare a fondo nelle questioni controverse e capire perché si debba spendere per la guerra piuttosto che per la pace.Grazie alla campagna Taglia le ali alle armi, nel nostro Paese una generica invettiva anti-casta sta diventando progressivamente una specifica e consapevole opposizione alla maggiore e più ingiustificabile di tutte le spese, quella per gli armamenti. E una parte importante del nuovo Parlamento sta provando a recepire e rispondere.
Questa novità il complesso militare-industriale non l’aveva prevista. Da questo risveglio di attenzione nel Paese si sente minacciato al punto che, in un corto circuito istituzionale, il Consiglio superiore di difesa offende direttamente il Parlamento, cioè il principale organo democratico costituzionale che è preposto a difendere. Un completo e pericoloso spaesamento. Al quale bisogna rispondere con la fermezza nella verità, la forza della nonviolenza, l’obiezione di coscienza personale (alla quale invita anche il Movimento Nonviolento) per consentire al Parlamento di votare liberamente – senza intimidazioni e condizionamenti – le mozioni per la cancellazione del programma degli F-35 che il Paese sta aspettando. A cominciare dalla prossima votazione del 10 luglio al Senato della Repubblica.
Scriveva Mohandas K. Gandhi, che di campagne politiche se ne intendeva, che “ogni lotta nonviolenta per la giustizia passa per la prova di cinque fasi: indifferenza, ridicolo, calunnia, repressione, rispetto”. Probabilmente siamo ad un passaggio di fase.
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