Volontariato

Il 4 novembre sia Festa del Disarmo (anziché delle Forze Armate)

di Pasquale Pugliese

Anche quest’anno il 4 novembre  nelle piazze d’Italia torneranno i picchetti militari e gli alzabandiera per la Festa delle Forze Armate (scusate il festival di maiuscole). Il 4 novembre, data di fine della prima guerra mondiale, la “grande guerra”, fin dal 1919 si festeggiano le forze armate nell’unica “festa nazionale che abbia attraversato le età dell’Italia liberale, fascista e repubblicana”, come ci ricorda wikipedia, come se niente fosse cambiato in questo secolo trascorso.

Allora ricordiamola questa “grande guerra”, che fu chiamata così non solo per la sua dimensione intercontinentale ma sopratutto per la capacità distruttiva su larga scala messa in campo dagli eserciti. Quei 4 anni di guerra provocarono la repentina riconversione delle moderne invenzioni tecniche in strumenti bellici, finalizzati al terrore di massa. Il sistema economico indirizzò tutte le sue risorse a sostenere l’impegno di guerra. Le nuove fabbriche fordiste – chimiche, meccaniche, aeronautiche e navali – furono rapidamente piegate al servizio delle armi chimiche, dei carri armati, degli aerei da combattimento, dei sottomarini da guerra, moltiplicando la produzione in tutti i settori. Con 60 milioni di combattenti e 16 milioni di morti, di cui 7 milioni di civili, la guerra diventò, per la prima volta, di massa e totale. “Questa guerra segna uno spartiacque – scrive Anna Bravo, ne La conta dei salvati – che divide la storia e la memoria moderna in un prima e un dopo”

E’ un salto di qualità distruttiva acquisito definitivamente dagli eserciti, che da allora in poi sarebbe stato sempre più perfezionato, in un’escalation senza fine di armamenti, guerre, vittime civili, distruzione delle città e nuovi, più potenti armamenti. Fino ai campi di sterminio, ad Hiroshima e Nagasaki, e poi all’equilibrio del terrore, al napalm, all’uranio impoverito, alle armi battereologiche, ai cacciabombardieri nucleari F-35, ai droni telecomandati…In un vortice di violenza diretta, quando le armi iper-tecnologiche vengono usate ai quattro angoli del pianeta; di violenza strutturale nella loro continua accumulazione e sviluppo, in preparazione di nuove guerre, sottraendo ingenti risorse alle spese civili e sociali; di violenza culturale nella colonizzazione dell’immaginario pubblico dominante che non pre/vede nel suo orizzonte, e quindi non rende possibili, le alternative alla guerra, pur considerata un “flagello” dalla Carta dell’ONU e “ripudiata” dalla Costituzione italiana.

Come si può dunque continuare a festeggiare – dopo un secolo di tragedie belliche – proprio quelle forze che preparano e rendono ancora possibile le guerre? Quello strumento militare con il quale vengono combattute? Com’è possibile festeggiare coloro che armandosi, in questa nuova corsa anche italiana agli armamenti – che ha portato in questi giorni la Lockheed Martin ad arruolare (a sua insaputa, naturalmente) il ministro della difesa italiano come testimonial dello spot per gli F-35 – contemporaneamente, ci disarmano di fronte alle vere e concrete minacce che assediano la nostra vita civile: la povertà (raddoppiata negli ultimi 5 anni), la disoccupazione (oltre il 40 % dei giovani italiani), la precarietà sociale, le mafie, le devastazioni ambientali, l’analfabetismo dilagante. Se le feste civili servono a formare la coscienza dei cittadini, il 4 novembre è proprio una cattiva maestra. Ed è anzi vergognoso che in molte parti d’Italia le scuole siano state sollecitate a far partecipare i bambini alle parate militari o a visitare le caserme.

Tuttavia, se il ricordo della fine della “grande guerra” deve proprio essere una festa, invece che un giorno di lutto nazionale, almeno sia la “Festa del Disarmo” come monito permanente contro tutte le guerre. Un Giornata nella quale si ricordino – e si onorino – le renitenze e le diserzioni dei molti giovani che si rifiutarono di andare a morire ed uccidere nelle trincee d’Europa, gli ammutinamenti e le insubordinazioni di massa dei soldati stanchi di essere mandati al macello dai propri superiori (come narra la migliore filmografia di guerra, da “Orizzonti di gloria” di Kubrik a “Uomini contro” di Rosi), le tregue spontanee dal basso, come quella che fu realizzata dai soldati lungo tutto il fronte occidentale intorno al Natale del 1914, con l’intonazione di canti di pace nelle diverse lingue e scambi di poveri doni tra le due trincee, per non dimenticarsi della propria umanità. Tutte azioni di disarmo personale, si disubbidienza diffusa e obiezione popolare alla logica della guerra. Per le quali, orrore nell’orrore, nella “grande guerra” si applicò per la prima volta su amplissima scala anche la “decimazione” di coloro che esitavano a diventare cieche e sorde macchine di morte. E sulla ricostruzione di questa memoria civile, che insegna la responsabilità personale e non la cieca obbedienza, si coinvolgano le scuole e gli studenti.

Ecco il 4 novembre sarebbero loro da festeggiare, i moltissimi che si opposero personalmente nei modi che poterono – spesso pagando con la propria vita – a quella che Benedetto XV definì “l’inutile strage”, ed il cui sacrificio – insieme al sacrificio delle vittime di tutte le guerre – ci obbliga a cercare finalmente, dopo un secolo di massacri, un’altra strada che lasci definitivamente la guerra fuori dalla storia. La strada del disarmo, della riconversione dell’industria bellica e della costruzione di un altro paradigma di difesa: civile, non armata e nonviolenta. Così il 4 novembre può diventare davvero festa, la Festa del Disarmo. Sarebbe il modo più saggio di avviare l’anno prossimo celebrazioni non retoriche, ma di buon senso, per il centenario della “grande guerra”.

Nessuno ti regala niente, noi sì

Hai letto questo articolo liberamente, senza essere bloccato dopo le prime righe. Ti è piaciuto? L’hai trovato interessante e utile? Gli articoli online di VITA sono in larga parte accessibili gratuitamente. Ci teniamo sia così per sempre, perché l’informazione è un diritto di tutti. E possiamo farlo grazie al supporto di chi si abbona.