Famiglia

Prima l’aiuto o prima i conti in regola?

di Jennifer Zicca

Questa domanda è un po’ che mi frulla nella mente; penso che sia nata dopo aver partecipato ad un convegno in cui ho potuto ascoltare il Garante Infanzia Vincenzo Spadafora, il quale espresse la sua preoccupazione per quanto sta succedendo nel settore delle comunità per minori e case-famiglia.

La crisi economica, che in gran parte ognuno di noi sta sentendo  (chi più e chi un po’ meno) sulla pelle, sta colpendo in modo quasi “rivoluzionario” il mondo sociale. Una conseguenza tangibile di questo cambiamento è l’aumento dell’età media dei/delle ragazzi/e ospiti delle comunità e delle case famiglia: queste strutture sono nate dalla necessità di dover accogliere il minore allontanato per tutelarlo e proteggerlo dalla situazione familiare o dal proprio ambiente sociale malsano. Occorre considerare che chi viene aiutato con questa soluzione rientra in almeno una delle motivazioni alla base della “sistemazione in altro contesto rispetto alla famiglia di origine”: inadeguatezza genitoriale, problemi di dipendenza di uno o entrambi i genitori, problemi di relazioni nella famiglia, per maltrattamenti e incuria, problemi sanitari di uno o entrambi i genitori.

Più aumenta l’assenza di risorse economiche più crescono gli interventi inadeguati sul fronte della prevenzione dei minori o delle famiglie con gravi problemi. I servizi devono pianificare obbligatoriamente gli interventi mettendo in primo piano le soluzioni più  economiche e ponendo in secondo piano le reali necessità di intervento: si segue comunque il bambino lasciandolo a casa, cosa che nelle situazione in cui vi è un rischio di degenerazione dei problemi, sino a quel momento relativamente affrontabili e leggeri, può portare, a causa della bassa intensità di intervento e protezione, ad un moltiplicarsi dei traumi e lutti che il minore dovrà prima o poi affrontare e che potrebbero mettere a rischio il suo futuro da adulto.

Esiste oggi il rischio di un “non allontanamento”, cioè il fatto che un minore non venga mai allontanato da un contesto trascurante, violento, maltrattante diventando così un giovane adulto con alle spalle il peso del suo passato che non sa da dove iniziare la rielaborazione di questo e si trova di fronte ad una situazione oramai difficilmente recuperabile.

Sempre in quel convegno sentii dire che le statistiche parlavano di inserimenti in strutture con tempi limitati a soli tre mesi: come si può aiutare un minore che necessita di protezione, cura e riparazione dei traumi in soli tre mesi? La rielaborazione della propria storia è un processo di cura delle proprie ferite medio-lungo. Essendo gli ospiti delle comunità e case famiglia sempre più in età adolescenziale, come si può pensare ad affidamenti o adozioni in famiglia se questi ormai sono nella fascia d’età in cui, per natura intrinseca dell’adolescenza stessa, tendono ad andare contro l’adulto e le regole?

Un famiglia affidataria, se non sufficientemente dotata di competenze  e  di conoscenze, rischia di aumentare i disagi del ragazzo o della ragazza. Esistono certamente casi in cui la storia finisce a lieto fine anche in situazioni di brevi periodi di accoglienza in strutture e conseguenti affidi o adozioni, ma nella realtà che ho potuto toccare con mano penso che sia molto difficile adattarsi in più contesti differenti nel giro di pochi mesi…già  si fatica ad affrontare e rielaborare i propri lutti, pensate anche a dovere cambiare letto, ritmi, abitudini, contesti abitativi, persone, ripetute volte nel giro di pochi mesi: casa, struttura, famiglia adottiva o affidataria, rischio di rientrare in struttura, nuova famiglia, ennesimo rischio di rientrare in struttura, rientro in famiglia in un contesto ancora più deprivato…. Il giovane diventa un “pacco postale”, o quanto meno rischia di sentirsi tale.

E da qui nasce un mio dubbio personalissimo: come si sentono gli operatori (assistenti sociali, psicologi, educatori professionali, ecc.) che per una vita intera hanno concordato con la morale sociale (quella per la quale si devono salvare i più bisognosi) a trovarsi in un paese in cui i tagli e la legge costringono a puntare su chi e su ciò che costa meno? Chi lavora nel sociale non ha grandi aspettative di guadagni stratosferici, ma ha il grande desiderio di poter aiutare e salvare nel limite delle loro possibilità chi è in difficoltà, in modo equo.

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