Cosa sono le comunità e le case famiglia? Provo a fare un po’ di chiarezza…
Io sono stata cinque anni in comunità (chiamata in alcune regione casa famiglia), una struttura la cui finalità può essere l’accoglienza di minorenni, disabili, anziani, adulti in difficoltà, persone affette da AIDS e/o in generale persone con problematiche psico-sociali.
La comunità nella quale sono stata ospitata si occupa dell’accoglienza di minori «per interventi socio-assistenziali ed educativi integrativi o sostitutivi della famiglia». Questo tipo di struttura si pone in alternativa agli orfanotrofi (o istituti) in quanto, a differenza di questi (chiusi per Legge il 31 Dicembre del 2006), dovrebbero avere alcune caratteristiche (organizzative e relazionali) adatte a renderla somigliante ad un contesto familiare.
I tratti di maggiore affinità con la famiglia sono i seguenti:
Presenza di figure “genitoriali” ovvero educatori e volontari che coprono, fra i vari turni, 24 ore su 24 ore con i bambini e ragazzi ospiti.
Numero ridotto di persone accolte, per garantire che i rapporti interpersonali siano quelli di una famiglia: io ero in una comunità di 10 ospiti (di più sono troppi!).
La casa deve avere le caratteristiche architettoniche di una comune abitazione familiare, compatibilmente con le norme, eventualmente, stabilite dalle autorità sanitarie: abitavo in un comune appartamento, avevo la mia camera divisa con altre ragazze, come si fa di norma in famiglia, personalizzata a nostro piacimento.
La casa deve essere radicata nel territorio, deve, cioè, usufruire dei servizi locali (negozi, luoghi di svago, istruzione) e partecipare alla vita sociale della zona: era normale fare uscite di gruppo, avere degli orari in cui poter uscire e frequentare gli amici ed i famigliari.
Al contrario di ciò che alcuni politici italiani e alcuni programmi televisivi spazzatura stanno cercando di far credere agli italiani, in queste strutture non vengono accolti bambini e ragazzini strappati dalle braccia di genitori amorevoli ma minorenni che, per un certo periodo, vivono al di fuori del nucleo famigliare originario poiché quest’ultimo non è nelle condizioni di poter svolgere il proprio compito genitoriale.
La legge del 28 marzo n. 149 del 2001 (http://it.wikipedia.org/wiki/Minori_fuori_famiglia – cite_note-3) stabilisce che il minore ha il diritto di crescere ed essere educato nella propria famiglia. Le condizioni d’indigenza dei genitori non possono essere di ostacolo all’esercizio del diritto del minore alla propria famiglia. A tal fine a favore della famiglia sono disposti interventi di sostegno e aiuto. Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle proprie competenze, sostengono i nuclei familiari a rischio, al fine di prevenire l’abbandono e di consentire al minore di essere educato nell’ambito della propria famiglia.
Nel caso in cui il minore sia vittima di violenza, incuria grave, maltrattamento e abuso il Tribunale per i Minorenni (non le cooperative o le assistenti sociali o gli educatori stessi) dispone l’allontanamento del minore prevedendone l’inserimento presso una famiglia affidataria o una persona singola o in una comunità di accoglienza pubblica o privata, tutti luoghi in grado di assicurargli il mantenimento, l’educazione, l’istruzione e le relazioni affettive di cui egli ha bisogno.
Non si tratta di bambini allontanati da famiglie “povere” bensì di piccoli che sono spesso vittime d’incurie gravi, di maltrattamenti e di abusi. Il periodo di presumibile durata dell’affidamento deve essere rapportabile al complesso d’interventi volti al recupero della famiglia d’origine. Tale periodo non può superare la durata di ventiquattro mesi ed è prorogabile, dal tribunale per i minorenni, qualora la sospensione dell’affidamento rechi pregiudizio al minore. È dunque fondamentale che l’allontanamento si prospetti temporaneo e si cerchi di preparare il rientro in famiglia al più presto.
Ovviamente se vi è il rischio che la sospensione degli affidamenti rechi pregiudizio al minore è perché il Tribunale per i Minorenni reputa, dopo indagini, controlli e colloqui, la famiglia d’origine non adeguata per far crescere ed educare un minore, ossia che i problemi alla base dell’allontanamento non sono ancora stati risolti.
Un altro mito che si sta cercando di far credere agli italiani da persone del tutto ignoranti è che le comunità siano dei “lager” o delle “prigioni” perché hanno delle regole rigide e ferree. In realtà non è così che funziona, infatti le regole che vengono poste in comunità come quella in cui sono stata ospite sono regole che ogni genitore dovrebbe mettere in atto con i propri figli: le uscite (se il minore ha nove anni non è normale lasciarlo andare in giro da solo, se ne ha 16 deve dar modo di credere che di lui ci si possa fidare), gli orari di rientro (se hai un età adatta per uscire da solo la sera devi avere comunque un limite, di norma come un genitore dice al proprio figlio “Devi essere a casa alle2.00”), non mangiare con il cellulare in tavola o spegnere la TV durante i pasti per poter godere del momento in cui ci si riunisce tutti intorno ad un tavolo, turni per fare le pulizie (da maggiorenni, purtroppo, dovremo star dietro ad un intera casa da soli), andare a scuola o prendere un attestato per il proprio futuro, possibilmente fare uno sport, non drogarsi e non bere da star male..
Quale di queste regole è incivile?
I ragazzi/e che si vedono dare queste regole di primo impatto si arrabbiano come farebbero con i loro genitori perché un minorenne non ha ancora la capacità di capire che quelle regole servono per poter dare una base al nostro futuro: quando diventiamo adulti le regole ce le dobbiamo dare noi stessi.
Cosa fa VITA?
Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è grazie a chi decide di sostenerci.