Cultura

Dal grigio di Milano emergono i Les Enfants

di Lorenzo Maria Alvaro

Erano diverse settimane che volevo scrivere questo post. Per questo farò una premessa: mi piace talmente tanto la musica che fanno questi ragazzi che non so se riuscirò a comunicarlo bene quanto vorrei. Detto questo, le settimane di cui parlavo all’inizio sono quelle passate dalla serata al circolo Everest di Vimodrone dove ho visto il concerto dei Les Enfants (su invito del mio amico Simone Nicastro che tante volte mi ha fatto scoprire bella musica o come direbbe lui «ti ho insegnato tutto io!») fino ad oggi.

Quella sera ho salutato brevemente la band dopo la performance e gli ho comprato tutta la discografia, due ep: il primo omonimo (Les Enfants) prodotto da ViaAudio Records e il secondo, “Persi nella notte” autoprodotto. Da quel momento ogni giorno in macchina ascolto solo loro. Tenendo conto che entrambe le uscite constano di 4 tracce ciascuna e che generalmente non sono monomaniaco in fatto di musica potete capire che tipo di amore a prima vista sia stato.

Determinante, come spesso succede, è stata la loro performance live. E i fattori in gioco sono tanti. Immaginatevi una sala molto grande ma poco popolata, una trentina di persone in tutto. Un bel palco. Comincia la musica e il resto non conta più. Quello che ci si trova di fronte è un quadro tutto sovvertito. Il batterista è anche il cantante, è davanti alla formazione, in piedi, con lo strumento modificato in modo da poterlo suonare interamente in posizione eretta. I pezzi dello strumento sono portati ad estrema sintesi per avere solo quello che serve. Intorno un chitarrista (Francesco Di Pierro), un tuttofare che armeggia con synth, farfisa, chitarra e metallofono (Umberto Del Gobbo) e un bassista (Michele Oggioni). La musica è dolce ma investe, per nulla docile. E poi parte la voce. Ed è lì che cambia tutto. Sia chiaro, la musica è di altissimo livello, ma quella voce è oltre. Marco Manini, oltre ad essere un ottimo batterista (e a riuscire a fare una cosa difficilissima: tenere una linea ritmica e contemporaneamente cantare una linea melodica) è un cantante pazzesco. Una voce profonda, che sa essere dolce ma anche scartavetrare, potente e insieme delicata. Una di quelle voci con cui si potrebbe chiedere di cantare qualunque cosa. E invece i testi sono brevi, ragionati. Ogni parola, centellinata, acquista più peso e senso. È così che mi sono innamorato dei Les Enfants e ho deciso che li avrei intervistati. Qui di seguito la mia chiacchierata con Manini.

Partiamo dalle basi. Perché un nome un po’ fighetto, in francese?
Ci piace giocare con la musica, da sempre. Il nostro approccio non è didattico ma scanzonato. Senza regole. Ci piace giocare in libertà. È questo il senso da cui nasce il nome.

Tu fai il batterista ma sei anche frontman. In tutti sensi, cioè stai fisicamente con lo strumento davanti al gruppo. È una trovata o ha un senso?
È una scelta nata con il tempo. Io sono nato batterista e ho suonato in diversi gruppi rock standard. Con i Les Enfants ho cominciato, dall’inizio, come batterista cantante. Ma naturalmente finiva sempre che dovevo stare in fondo, come tradizione vuole. Il che per un cantante è un handicap. Così, per provare a trovare una soluzione, mi sono inventato questa batteria, più semplice e meno ortodossa, che si potesse suonare in piedi.


Quindi questo cambiamento operato sullo strumento immagino abbia anche cambiato il suono del gruppo…
Sì, all’inizio suonavamo post rock, in stile Sigur Ròs. Cose molto lunghe non in forma di canzone. Come dicevo all’inzio era anche un gioco. Poi, nel corso di due anni, ci siamo trasformati. Abbiamo cercato di trovare una sintesi dei suoni. Ne è nata questa dimensione nuova che però mantiene dell’incipit l’approccio un po’ naif, fuori dai canoni.

La mia canzone preferita è “Milano”, in “Persi nella notte”. C’è questo contrasto tra la fiducia del «lasciati cadere se si vive una volta sola» con la «marea di niente nel grigio di Milano», che non solo fotografa bene la città ma lascia intravedere chi siete…
Parlo del contrasto tra città e natura. Non è che sia una cosa nuova o particolarmente profonda, voglio dire, lo sappiamo tutti…

Hai sentito “Earth Hotel” l’ultimo disco di Paolo Benvegnù?
Non ancora

Anche lui ne parla. Non è poi così banale…
Bè ti ringrazio, lo ascolterò (ride).

Quello che è certo comunque è che avete un rapporto particolare con la natura, o no?
Certo. Il motivo è che siamo cresciuti con gli scout Agesci, andando in tenda e in montagna. È lì che nasce questa sensazione di contrasto tra la città, e le barriere che ne derivano, rispetto all’umanità che invece la natura aiuta. Anche la nostra sala prove è una sorta di emblema di questa cosa. Per suonare ci rifugiamo in un box, lo abbiamo sempre fatto, per parecchi anni. Uno spazio  sotto terra. Un rifugio in cui siamo rinchiusi, fuori da tutto. Un posto estrapolato dal contesto, sotto la città.

Il vostro scoutismo si evince chiaramente nel video di “Dammi un nome”, sempre estratto da “Persi nella notte”…
Quei ragazzi che si vedono nel video sono proprio quelli a cui facciamo gli educatori. È il nostro gruppo.

Quando ci siamo visti all’Everest ti ho chiesto come mai non aveste ancora fatto un lp. Tu mi hai risposto secco «vogliamo prenderci il tempo necessario». Oggi puoi spiegarti meglio?
Abbiamo fatto i due ep non solo perché è una forma più agile e che costa meno. Ma anche perché il modo con cui costruiamo i pezzi è basato molto sull’autocritica. Ci mettiamo tanto a scrivere una canzone, possono volerci mesi. Le vogliamo tutte al massimo, tutte diverse e tutte con una loro particolarità. Soprattutto adesso che cantiamo in italiano anche l’attenzione per i testi è cresciuta tanto. Quello che proponiamo deve essere sentito e condiviso da tutti. Ogni canzone è riconducibile alle esperienze che facciamo. A volte quindi capita che non venga nulla. Altre invece ci vuole del tempo per trovare la forma giusta.

Quindi non c’è un album all’orizzonte?
In realtà adesso l’obbiettivo è uscire con un disco di una decina di pezzi. E come puoi immaginare non sarà facile per noi.

Ora dirò una cosa che spero non ti dispiaccia. Quando ti ho sentito la prima volta ho pensato che la tua voce aveva qualcosa di familiare. Dopo due giorni ho capito che mi ricordava quella di Venditti. È una mia elucubrazione o c’è un’affinità?
Se io abbia la voce simile alla sua non lo so. Di certo c’è che Venditti mi ha sempre fatto impazzire. Mi piace da matti. Ci sono cresciuto e lo sento mio. Devo dire che il suo modo di cantare che viene dalla pancia e dal cuore, raggiungendo una forza incredibile, mi ha sempre appassionato molto.

Oltre a Venditti che cosa ascolti?
Tantissima musica indie elettronica, rock e psichedelica. E poi Sigur Ròs, Arcade Fire, Arctic Monkeys. Insomma un po’ di tutto. Compreso tantissimo hip hop italiano.

Hip hop italiano? Veramente? (Anche io sono un grande appassionato ndr)
Si giuro.

Fai qualche nome!
Ne faccio due, Club Dogo e Luché ex CoSang.

E perché ti piace?
Ho fatto il liceo SocioPsicoPedagogico. Per questo mi piace molto il risvolto sociale che ha il rap. Quell’affrontare in maniera diretta ed esplicita temi rilevanti. Deve essere per via della mia formazione.

So che lavori anche in radio…
Si, un venerdì ogni due, alla sera (ore 20:00), su Radio Statale tengo un programma che si chiama Carne Fresca e  in cui propongo realtà musicali emergenti con interviste e live.

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