Mondo

Oltre la dittatura dell’indifferenza ripartiamo dai nostri piccoli Ground Zero

Il grande sociologo Aldo Bonomi analizza i cambiamenti in atto dopo l'11 settembre. E consiglia buone pratiche di cittadinanza per mettersi in mezzo. Tra Bush e Osama

di Redazione

E’ possibile leggere nei comportamenti sociali e politici non gli elementi della tragedia, dell?apocalisse antropologica dell?11 settembre, ma scavare sotto le macerie di quel giorno per individuare se qualcosa nella società, nella cultura e nella politica è cambiato ?in meglio?? Dopo il mutismo che tutti ci ha preso allora, oggi è possibile tracciare un tenue bilancio di come da allora la società, la cultura e la politica hanno iniziato a mutar linguaggio? Partiamo dal linguaggio dei potenti del mondo, da coloro che lo sorvolano in tempi di globalizzazione alla ricerca dei luoghi ove investire o disinvestire il loro denaro, impiantare o delocalizzare le loro imprese, piantare colture transgeniche o sradicare foreste, commercializzare tramite i loro logo o imporre barriere e balzelli alle merci con il supporto della rete che tutto veicola. Quel linguaggio è cambiato in peggio. Globalizzazione hard Come ebbi a scrivere subito dopo l?11 settembre, questa era la globalizzazione soft, cioè un modello di globalizzazione basato sulla primazia del mercato e della tecnica di un primo mondo, dove anche noi viviamo (e lo dico per quelli che pensano solo all?impero americano), che in una logica di lunga durata avrebbe omologato territori, culture, tradizioni, linguaggi degli altri mondi. Loro sorvolavano e noi facevamo Genova rappresentando la critica che veniva dal primo mondo, e Porto Alegre dando voce all?altro mondo. Ed era diventato anche un po? un gioco simbolico, perché nel primo mondo i simboli che facevano opinione contavano molto: i sorvolatori ogni tanto atterravano per incontrarsi e raccontarci che la globalizzazione soft era possibile e noi lì pronti a dire la nostra, che «un altro mondo era possibile». Era uno scontro tra linguaggi, pur nella loro irriducibile alterità, quello dei sorvolatori basato sul codice del profitto per pochi che avrebbe portato vantaggio ai tanti, il nostro sul codice dell?equità per riequilibrare da subito ai tanti i vantaggi dei pochi, aggiungendo che le risorse in gioco non erano più da ritenersi illimitate e quindi da tutelare per il benessere dell?umanità. Ma con l?11 settembre noi e loro ci siamo trovati a confrontarci con il rancore, condensato in un luogo o in tanti luoghi del globo. Loro, i sorvolatori, hanno cambiato subito linguaggio. La globalizzazione da soft si è fatta hard, aggiungendo al primato del mercato quello dell?uso della forza: la guerra. Se la globalizzazione soft era un gioco, si fa per dire, geoeconomico, la globalizzazione ridiventa un gioco geopolitico, in cui in nome di una ?libertà duratura? di globalizzare si compilano gli elenchi degli Stati canaglia e si fa la guerra a chi resiste in nome dei fondamentalismi in Afghanistan come in Cecenia. Su questo asse sono cambiate alleanze e punti strategici del globo facendo dell?incontro tra Russia, Cina e Usa una polarità nuova della globalizzazione e di un dittatore pakistano un protagonista della politica estera mondiale lasciando l?Unione Europea in deficit di forza e noi con Genova e Porto Alegre in deficit di capacità di prender parola. Nel nuovo conflitto in atto nell?iperspazio globale tra sorvolatori e fondamentalisti, hanno poco spazio le posizioni altre, sia nella loro versione socialdemocratica, che nel sogno radicale di un altro mondo possibile. Tra Bush e Bin Laden sta male Prodi, ma anche Bertinotti non sta tanto bene. Come non è una soluzione constatare, come ha fatto acutamente il mio amico De Rita nelle considerazioni generali sulla società italiana del 2001, che Bevagna, piccolo paesino umbro, non va alla guerra, come a segnare una estraneità generale rispetto al richiamo forte dei sorvolatori pensando comunque di cavarsela come se il terribile evento potesse essere assorbito. Quando i conflitti toccano questioni fondamentali che riguardano il destino dell?umanità e sono alimentati da fondamentalismi, appare la crisi della politica e l?impotenza dell?indifferenza. Da questo Ground Zero ci è toccato ripartire. Qualcosa si è mosso. Partiamo dal mondo dei sorvolatori e dalla capacità della società americana di sviluppare un dibattito sul perché e come fosse possibile essere così odiati. Per passare al dibattito dentro le imprese della necessità di passare da logiche di shareholders (massimizzare i rendimenti per gli azionisti) a logiche di stakeholders (chi ha interesse per l?azienda o perché ci lavora o perché ci vive vicino). Insomma, sostituire il mito del massimo profitto per gli azionisti invisibili con l?attenzione ai soggetti visibili che lavorano e alle comunità locali ove operano. Poca cosa, forse, ma certamente un cambio di rotta rispetto a logiche di globalizzazione soft e hard. Cui ha fatto seguito un riconoscere come temi finalmente centrali lo sviluppo compatibile e le risorse scarse come l?acqua, che sono uscite da cenacoli di élites radicali e preveggenti come Cassandra, penso all?amico Riccardo Petrella e al Gruppo di Lisbona, per diventare questioni dell?umanità. Bevagna come New York Si è cominciato a capire che se anche Bevagna non va alla guerra, la guerra può arrivare a Bevagna se le questioni in gioco minacciano la nuda vita: il nostro pensare, le nostre forme di convivenza, il nostro modo di mangiare e financo il nostro modo di riprodurci, visto che qualcuno vuole brevettare o privatizzare non solo l?acqua ma anche il dna. E allora ha iniziato a rompersi quella dittatura dell?indifferenza che ci aveva fatto perdere il senso del tragico che le tragedie del Novecento con le sue guerre mondiali e l?apparire del male assoluto dei campi di sterminio avrebbero dovuto tenere vivo dentro di noi. Piccoli segni di mobilitazione che svelano come sia urgente mettersi in mezzo sia in Afghanistan che in Palestina e in Israele o in Algeria o in Cecenia, ovunque lo scontro si riduce a conflitto tra sangue, suolo e fondamentalismi. E come qui, nel primo mondo, è urgente mettersi in mezzo affinché la migrazione della moltitudine non diventi scontro tra improbabili ?razze piave? e gli immigrati, ma sviluppi forme di convivenza tra culture, linguaggi e religioni. Solo partendo da tanti micro comportamenti quotidiani di governo dei conflitti a livello del suolo è possibile ipotizzare di mettersi in mezzo tra Bush e Bin Laden o Saddam o il prossimo che verrà. Così come solo mobilitandosi, ognuno per quello che può, è possibile contrastare l?omologazione del nostro pensare, del nostro modo di mangiare e della nostra qualità della vita. Solo innovando dal basso il nostro modo di far politica e prendere voce partendo da noi e da dove e come viviamo è possibile pensare che un altro mondo sarà possibile.


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