Un volontario in esplorazione

di Alberto Olivari

Cinquantacinque milioni di anni fa, giorno più giorno meno, la placca indo-australiana e la placca euro-asiatica si scontrarono, dando vita ad una vasta catena montuosa: l’Himalaya. Oggi, l’Himalaya è divisa tra Buthan, Cina, Pakistan, India e Nepal, e comprende le quattordici cime più alte del mondo: i famosi Ottomila. Il Chomolangma (“madre dell’universo” in tibetano), con i suoi 8848 metri, è la vetta più alta di tutte.

Nel 1852, il Surveyor General dell’India (all’epoca territorio inglese), Sir Andrew Waugh, fu informato della “scoperta” della cima più alta del mondo. Inizialmente, questa cima fu battezzata  Cima b e, successivamente, Cima XV. Nel 1856, prese il nome definitivo di Everest, in onore del topografo ufficiale della corona britannica in India, Sir George Everest. All’inizio del Novecento, cominciarono le prime salite verso la vetta. Nel 1924, gli inglesi George L. Mallory e Andrew Irvine morirono nel tentativo di scalarla (il corpo di Mallory fu ritrovato in ottime condizioni nel 1999, con una gamba spezzata). Nel 1953, l’inglese Edmund Hillary e lo sherpa Tensing Norgay furono i primi a raggiungere la cima.

Tutti noi conosciamo, o possiamo conoscere, una serie di informazioni sul monte Everest: dove si trovi, che temperature possa raggiungere in primavera o in estate, quanti millimetri di pioggia cadano ogni anno, la violenza dei venti, il numero di spedizioni, la conformazione geografica. Tutte queste informazioni, alcune delle quali sono fondamentali per chiunque cerchi di scalarlo, fanno parte del tipico sapere schematico, classificatorio, intriso di nomenclatura, e quindi ritenuto oggettivo, del mondo occidentale. Nessuna di queste informazioni ci trasmette le sensazioni che si provano nella salita; la paura che ha investito Mallory mentre capiva di essere vicino alla morte; la sua tristezza per non aver visto la moglie un’ultima volta; il freddo pungente che entra nei polmoni; la fatica di camminare; la gioia di Hillary e Tensing, primi ad arrivare sul tetto del mondo.

Tutti noi, infine, conosciamo il monte Everest, come monte Everest. Certo, gli inglesi furono i primi a misurarne l’altezza con un teodolite, ma le popolazioni locali avevano già percepito l’imponenza, la maestosità di quel monte. Per loro, come ho scritto sopra, si chiamava Chomolangma. Un nome evocativo, ricco di storia e, probabilmente, di storie. Nessuno chiese alle popolazioni locali se la montagna avesse un nome e, eventualmente, che significato avesse. Gli inglesi si comportarono come se fossero loro gli scopritori, i primi, gli unici. Credettero di aver svelato chissacché, nonostante avessero invaso lo spazio altrui.

Il loro comportamento è l’esempio esatto di ciò che operatori, volontari, educatori non devono fare: guardare un monte con un binocolo e credere di averne colto ogni aspetto, ogni particolarità.

Considerare, invece, i millenni precedenti, gli spazi, i crepacci. Ricordarsi che la montagna, ogni montagna, ha le sue regole. E rispettarle.

L’atteggiamento di Arché  cerca di  approcciarsi con umiltà ad ogni contesto, senza la pretesa di avere soluzioni pret-à-porter, cercando di conoscere a fondo, senza giudicare, cosa – e soprattutto chi – si sta incontrando.


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