Bel cilicio, bella disciplina

di Alberto Olivari

Ward vs. Sanchez

Il 12 aprile 1997 a Las Vegas si sfidano Micky Ward e Alfondo Sanchez in un incontro di pugilato divenuto celebre a causa della discrepanza tra aspettative e risultato, tra l’incontro e l’esito, tra pugni tirati e vincitore. Sarebbe potuto essere una delle sfide più noiose di sempre, è diventata un esempio. Si sentono anche i commentatori esclamare: “L’arbitro dovrebbe fermare l’incontro”; “Se avessi pagato per vederlo pretenderei i soldi indietro” “Ward ha 31 anni, è qui perché ha bisogno di soldi. Verrà sconfitto e umiliato”. Il pubblico fischia. Ward scappa, tergiversa, si difende, tiene alta la guardia e incassa; non colpisce mai, va al tappeto. Sul ring c’è solamente un pugile: Alfonso Sanchez. E’ lui che conduce il match: per sette round attacca, incalza l’avversario, attacca nuovamente, colpisce. È lui che perde.

A prima vista il pugilato sembra soltanto un gioco per bambini picchiatelli e violenti. Probabilmente il cinema ha gran parte della responsabilità. Ma il fatto che quest’idea sia  comunemente accettata è senz’altro a causa di diversi pugili particolarmente improponibili corrispondenti allo stereotipo. Nessuno ricorda mai che Hemingway, Nabokov, Camus e Norman Mailer praticavano la boxe. Come tutti gli sport, infatti, significa allenamento, dedizione, costanza e disciplina.

Michel Foucault (restate con me), nelle sue lezioni al Collége de France del 1981-´82 ha detto che “per uno spirito libero l’obbedienza è tutto”. Come al solito una frase estrapolata da un contesto immensamente più ampio necessita di qualche chiarimento. Foucault sta parlando dell’incorporazione di una serie di pratiche che devono attecchire così in profondità da essere poi svolte con una completa naturalezza. Sarà poi il soggetto singolo a decidere se svolgerle o no. Per fare ciò Foucault chiama in causa l’egkrateia, che si può tradurre come dominio di sé, resistenza e perseveranza, e l’askesis, l’esercizio. Nell’aforisma 290 de La Gaja scienza (manca poco), Nietzsche scrive che i caratteri deboli sono impotenti su se stessi poiché non riescono a darsi una disciplina, non riescono ad agire in vista di una costruzione del proprio io e che “una sola cosa, infatti è necessaria: che l’uomo raggiunga l’appagamento di sé”. La disciplina, insomma, non è un’azione coatta che trascende l’individuo ma una matrice d’azione atta a facilitare le nostre azioni in vista del risultato finale.

Peter Sloterdijk (l’ultimo, giuro!), filosofo contemporaneo, ha ripreso la famosa frase di Ludwig Wittgensetin “devi cambiare la tua vita” e l’ha connessa all’idea di uomo come atleta dell’evento: l’uomo dev’essere come una catapulta che si trattiene fin quasi a piegarsi su se stessa per poi lasciarsi andare sprigionando una forza pari alla tensione precedente e capace di superare il muro dei propri limiti. Per fare ciò sono necessarie due cose: darsi un obiettivo ed essere sordi ai giudizi distruttivi degli altri. Micky Ward ha ricevuto un’infinità di pugni per quasi mezz’ora. Lui ne ha tirato uno.  Ha aspettato il suo momento, senza  scomporsi, senza curarsi dei commenti del pubblico e di ciò che avrebbero potuto pensare di lui. Alla fine si sente esclamare un cronista: “Questo è il K.O. più inaspettato che abbiate mai visto”. Ward era sul ring per vincere, solo lui l’aveva capito, gli altri no. È bastato.


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