Qualche giorno fa ero ad Ann Arbor, in Michigan, a discutere di trasporti e mobilità sostenibile in un congresso che ha chiamato a raccolta una cinquantina di studiosi da tutto il mondo.
E’ l’epoca dei big data e dei calcolatori virtuali ed in questo gli israeliani sono dei maestri indiscussi che ormai popolano le conferenze scientifiche di mezzo mondo. Anche questa volta mi sono trovato dunque a discutere con dei matematici israeliani, ma non di modelli che spiegano i flussi di traffico, ma per curiosare nelle loro vite.
Israele è una nazione di profughi ed ognuno dei suoi cittadini porta con sè una storia avventurosa di migrazioni secolari, persecuzioni, tante lingue parlate e poi dimenticte.
Questa volta ho avuto la fortuna di conoscere un matematico della Tel Aviv University, emigrato dagli Urali in Israele 25 anni fa perchè (così ha detto): “Nessuno riusciva a pronunciare il mio nome”. Un modo elegante e forse anche simpatico per dirmi che soffriva per l’antisemitismo.
Sono curioso di sapere come fosse la vita negli Urali durante l’era sovietica ed Itzhak mi ha risposto “Non ricordo molto, era un’altra vita. I miei figli sono nati a cresciuti laggiù (in URSS, n.d.r.), ma non rimpiangiamo nulla. Israele ci ha adottati e lì abbiamo realizzato i nostri sogni”.
Queste poche parole contengono tutto lo spirito avventuriero dei profughi, attitudini da premiare, soprattutto in un paese come il nostro che sembra aver smarrito da tempo la spina dorsale.
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