Economia

contro il numero chiuso a Medicina

di Marcello Esposito

Anche quest’anno è andato in scena lo spettacolo della prova di accesso al corso di laurea in Medicina: 62.695 candidati per 9.224 posti disponibili. Una metafora dell’Italia, il “numero chiuso”. Un marchio di fabbrica forgiato nel medioevo delle corporazioni e che sopravvive al tempo, ai regimi politici e ai contesti istituzionali. L’Europa ci sta provando con i bagnini, ma la marea di bandiere inglesi issate sui gabbiotti quest’estate fa pensare che la partita sia tutt’altro che chiusa.

Si dice che la cultura liberale abbia vinto e domini oramai incontrastata in tutti i paesi occidentali. Perlomeno, così scrive il Financial Times. Il “numero chiuso”, su cui si basa il sistema di accesso all’educazione superiore in Italia, è la prova che ci sono sacche di resistenza proprio dove meno te lo aspetteresti. Il “numero chiuso” presuppone, infatti, che qualcuno, in un Ministero o in un rettorato, sia in grado di prevedere il futuro – tra dieci anni, poniamo – meglio di quanto non riescano a fare i cittadini. Sulla capacità vaticinatorie dei tecnocrati illuminati e sulla loro abilità di pianificare i flussi economici qualche dubbio è lecito, non foss’altro per l’imperitura memoria dei “successi” conseguiti dai paesi del socialismo reale. D’altro canto, sulla base di quale modello economico o sociologico si preveda una riduzione della domanda dei servizi sanitari da qui ai prossimi anni? La popolazione sta invecchiando e con l’età aumentano le malattie croniche. Questo, peraltro, accade a livello mondiale, non solo nazionale.

Questo è l’inizio di un mio articolo apparso su Linkiesta lo scorso sabato (10/9/2016). Se volete leggere il seguito, cliccate qui.

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