Un paio d’anni fa feci un personal assessment. È una situazione in cui il datore di lavoro, o chi per esso, chiede ad una società di consulenza di profilare i suoi dipendenti attraverso diversi tipi di questionari ed un colloquio uno a uno.
Fu un gran divertimento, oltre che una situazione piuttosto interessante: dopo avere compilato test per 5 ore sono stato introdotto ad incontrare il deus ex machina dell’assessment, il quale rivelò che, statistiche alla mano, non capiva se io fossi un cane o un gatto.
Cane e gatto, cane e gatto, chi l’ha detto che non si può?
La mia divertita curiosità felina e il desiderio (tipicamente canino?) di essergli d’aiuto mi spinsero ad offrirgli una soluzione per quel dilemma, e pensavo a questo quando stamani l’algoritmo di Facebook, fondato sulla mia user experience, ha ritenuto opportuno mostrarmi un articolo che spiegava come i cani si affezionano alle persone mentre i gatti ai luoghi.
Gli animali non sono il mio, la mia vita con un animale domestico è durata poco meno di due settimane, ma ho riflettuto sul fatto che una parte di me tende ad antropomorfizzare i luoghi, attribuendogli caratteristiche umane: ci sono località schiette ed empatiche, e altre spocchiose ma meditative; reputo un certo paesino superficiale e poco interessato a conoscere gli altri, mentre quella tale città sa essere brillante e propositiva.
Questo mi rende potenzialmente affettivo sia nei confronti delle persone che dei luoghi, a tal punto che mi sono chiesto se non sia invece possibile localizzare le persone (cioè “guardare alle persone come fossero luoghi”), e se io stesso già non lo faccia. Nel parlato accade spesso, per esempio quando si parla di qualcuno come di una persona solare o chiusa o arida.
Come se ognuno di noi fosse un paesaggio vivente, con le sue asperità e le sue bellezze, dal fascino nascosto o più sfacciato. A molti amici ho regalato una volta (spero non di più) il paesaggio infinito, The endless landscape, un myriorama del 1830: 24 tessere che compongono un panorama, affiancabili orizzontalmente nell’ordine che si vuole; il disegno sarà continuo e consente 1,686,553,615,927,922,354,187,720 combinazioni differenti. Nel mio dono faccio riferimento all’idea che ognuno è chiamato a rendersi come si vuole, ha la possibilità per farlo, è protagonista della propria vita.
E poi mi trovavo sul ponte di Christo Yavachev, quando Yohanna, una giovane mamma di Casa Accoglienza, africana, si gira e mi chiede, nel nostro inglese affettato, con una luce di provocazione negli occhi: “Bello questo ponte. Ma poi dovranno spostarlo, vero?”.
“Sì, tra una settimana”.
“Secondo te poi potranno portarlo tra la Libia e Lampedusa? Il mio fidanzato è lì”.
Non so se sono cane o gatto, se le persone sono luoghi o sono i luoghi ad essere umanizzabili. So, però, che il nostro lavoro, e non solo quello, dev’essere ponte, e mai muro. Sempre.
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