Non profit

Passione civile a Palermo

di Diego Galli

Quando, per non far apparire il community organizing un termine trendy per un approccio troppo yankee per funzionare nell’Italia disorganizzata e divisa, citavo Danilo Dolci e la sua distinzione tra forza-potere e violenza-dominio, mi sembrava di aver trovato una traduzione italiana convincente. Che non a caso proveniva da uno dei tentativi più innovativi di organizzare politicamente una comunità fuori dai partiti e dalle grandi organizzazioni burocratiche, in luoghi dimenticati e marginali del paese. Come la Partinico degli anni cinquanta dove si traferì Danilo Dolci, un triestino trapiantato in Sicilia, considerato uno dei principali protagonisti del movimento della nonviolenza in Italia. Durante la sua vita, ha lavorato a strettissimo contatto con la gente e le fasce più disagiate ed oppresse della Sicilia occidentale al fine di studiare possibili leve al cambiamento e le potenzialità per un democratico riscatto sociale. Qui una bella infografica che ne ripercorre la vita (clicca per ingrandire).


Mai avrei pensato, mentre proiettavo le mie slide in giro per l’Italia, che venendo a Palermo avrei conosciuto i figli di Dolci, Amico e En, due di tanti fratelli e sorelle. Alcuni dei quali ancora attivi nel Centro per lo sviluppo creativo Danilo Dolci, che invece di essere una fondazione che gestisce l’eredità – morale, archivistica o patrimoniale – è un centro attivo le cui stanze sono piene di giovani provenienti da vari paesi europei che animano progetti con i rifugiati o nelle scuole. E continuano a sviluppare il metodo “maieutico” utilizzato da Danilo Dolci, e che non ha vere paternità, dato che altro non è che la disponibilità all’ascolto, al saper dar valore alla riflessione condivisa ed intima, ai silenzi tanto quanto alle parole, ai pensieri che emergono nel cerchio di persone in uno spazio insieme protetto e vulnerabile, perché in un cerchio si è visti e si è in gioco; semmai lo specifico in Danilo è l’avere intuito, e sperimentato, la “reciprocità” della maieutica.

Incontro Amico Dolci la mattina nella sua stanza e nel giro di pochi minuti mi invita a venire con lui in un paese del Belìce la sera stessa, per un incontro con un gruppo di volontari che ha messo in piedi, in un edificio mai finito destinato a divenire un presidio medico pubblico in un luogo in cui l’ospedale più vicino è a più di mezz’ora di macchina, una Casa della salute. Questa casa della salute apre ogni giorno grazie alla presenza a rotazione di una quarantina di volontari e dell’impegno dei medici di famiglia della zona a ricevere i propri pazienti lì, mettendosi a disposizione dell’intera cittadinanza, invece che nei loro studi privati. E’ la risposta di questi cittadini alla chiusura dell’ospedale un tempo aperto grazie ai contributi degli emigrati del paese negli USA, e allo spreco di denaro pubblico e cemento che ha lasciato una delle tante opere incompiute ad arricchire il patrimonio di costruzioni mai finite che rendono questo paese una sorta di ghost town in versione sicula.

Arriviamo che già i volontari, circa 18 in tutto i presenti, sono seduti in cerchio su delle sedie. Il primo giro è di presentazione, ma Amico Dolci chiede anche di raccontare perché siamo lì e il nostro sogno.

Un uomo dice che prima di ammalarsi sull’aereo Roma Palermo lesse su un libro che un uomo invecchia quando i ricordi prendono il posto dei sogni. Dice che per lui stare lì ad occuparsi della casa della salute significa continuare a sognare. Una donna, ex assessore alla sanità del piccolo Comune, ha vissuto a lungo fuori dalla Sicilia. Prima a Milano. Poi in un piccolo comune del Mugello. Lì c’era una ricca vita associativa. Pensava di aver trovato il suo posto, l’efficienza del nord, unita al cuore dei piccoli comuni toscani. Ma non poteva sopportare l’idea della sua terra che si spopola di giovani. Ad ogni rientro i treni erano tristi, pieni di persone che andavano al Nord per curarsi, o a trovare figli che se n’erano andati. E così è tornata in quel piccolo paese.

Il secondo giro è sul significato del volontariato. Per il medico che guida e ha messo in piedi quel gruppo, un medico molto rispettato, il volontariato è il viaggio che ognuno di noi è chiamato a fare per lasciare un segno. Poi parla delle istituzioni. “Ditemi quale siciliano ha fiducia nelle istituzioni politico-sanitarie. E’ per questo che siamo così disgregati. Non abbiamo fiducia in nessuno. Il volontariato è l’unico modo di riempire questo vuoto”. Il dottore non lo sa forse, ma ha riassunto in poche parole decine di pagine di dibattiti e studi sul capitale sociale e sul ruolo delle istituzioni. Delle quali non si può fare a meno. Sono simboli di integrazione. Se non funzionano o sono corrotte, diventano simbolo di disgregazione. Con buona pace di chi ritieni di poterne fare a meno, o addirittura sostituirsi ad esse.

Amico Dolci interrompe raramente, solo per richiamare le regole. Non si interrompe e non ci si risponde. Stare nei tempi per permettere a tutti di parlare. A volte provoca con delle domande.

Mentre parliamo alle nostre spalle passano a ripetizione dei ragazzi su delle moto da cross. Sono molto rumorose, anche se passando in paese vanno al minimo. Sovrastano le parole e ci si deve interrompere. Si capisce che poco dopo sfrecciano per le strade buie di campagna a sfidare il pericolo. Riti di iniziazione non più officiati dalla comunità che ha perso se stessa e antichi saperi che la tenevano unita e viva, lasciano i ragazzi a trovarsi sostituti contro un senso di vuoto.

Il giorno dopo Amico mi chiama per darmi un libretto. E’ un resoconto di un dialogo maieutico da lui coordinato sulla Casa della salute, su cosa significa per i ragazzi di una scuola media la salute. Leggendolo si rinforza in me la sensazione della sera prima. Come ciascuno racchiuda un sapere incredibile, un tesoro. Come sia semplice a volte farlo venir fuori. Come questo sapere messo in comune sia la risorsa più grande, bella e generosa che abbiamo a disposizione. Alla fine Amico riporta le frasi che chiede di dire ai ragazzi, come valutazione dell’incontro. Eccone una selezione:

Come ognuno la pensa: di solito non riflettiamo

Scoprire gli altri, e una parte di noi stessi

Me l’aspettavo molto diverso: ti ringrazio per la pazienza… e … ti ringrazio, per quello che abbiamo detto

Non conoscevo il lato “speciale” di Anna, la mia migliore amica: non conoscevo ancora tante cose di lei

Il Centro per lo sviluppo creativo Danilo Dolci non è l’unica realtà interessante che incontro a Palermo. C’è l’Istituto Arrupe, che fa formazione politica di alto livello, ma anche intervento sociale. Nella sala dove vengo ricevuto ci sono postit sparsi sulle porte dove si parla di strategie di cittadinanza attiva per i NEETS (quei giovani che affondano nell’apatia, parte di una generazione mancante che include quelli che abbandonando Palermo dopo anni di precarietà e disoccupazione). Poi finanziano progetti come quello di Martina Riina, sui linguaggi urbani dei giovani immigrati a Palermo, come il rap o l’arte di strada.

La Fiera del mediterraneo ospita invece il campo estivo “Passione civile”, organizzato dalla comunità Emmaus dell’Abbé Pierre, che è riuscita a coalizzare una serie di associazioni tra cui Libera e Legambiente. Hanno messo su un mercatino dell’usato. Tentano di dimostrare che è possibile autofinanziare una comunità a Palermo di intervento sociale con il contributo di tutti. Le persone donano oggetti che non usano più, e i volontari li radunano e mettono in vendita. Vengono da tutta Europa. Molti sono impegnati in progetti di animazione sociale. Nicola Teresi di Libera, un ragazzo che è stato all’estero ma è tornato per riportare nella sua terra gli strumenti che ha appreso, mi parla di giovani polacche piuttosto che messicani in lacrime al momento di lasciare i ragazzi che vivono allo Zen con i quali hanno convissuto per due settimane.

Tra i progetti di animazione sociale c’è l’oratorio dei Salesiani a Santa Chiara, nel cuore del quartiere Ballarò, uno dei più multietnici della città. Don Enzo Volpe, che ne è il parroco da tre anni, un uomo di statura enorme, non solo fisica da quanto mi dicono più persone, mi spiega come lì si radunino ben 12 diverse comunità etniche, alcune delle quali celebrano nei locali dell’edificio le loro funzioni religiose inclusa quella islamica, oltre a vari culti evangelici. Gli chiedo se nel suo lavoro incontra problematiche che possono risolvere soltanto le istituzioni. Annuisce subito. E mi parla della formazione al lavoro. E io penso a quante volte, in soli due giorni, ho sentito parlare dei giovani che abbandonando Palermo in cerca di lavoro.

L’oratorio salesiano Santa Chiara a Palermo

Non è vero che in Italia non esista già il community organizing. E’ solo che a volte il volontariato sembra essere la risposta a istituzioni di cui nessuno ha più fiducia. La cui disfunzionalità crea disgregazione. Questa società così viva e generosa deve trovare il modo di vedersi riconosciuto il potere che le spetta. Per costringere le istituzioni pubbliche a divenire quello che tutti ci aspettiamo che siano, centri rappresentativi della società, capaci di renderla una comunità funzionale, di farsi carico dei suoi problemi, e di risolverli. I cittadini non devono e non possono sostituirsi ad esse, e si è dimostrata alla fine inefficace la soluzione delle liste civiche, come se l’unico modo di influire sia entrare nel Palazzo. Basterebbe che i cittadini occupassero il loro posto. Quello dei destinatari ultimi, e dei detentori della legittimità, delle decisioni politiche. Dove esiste, il community organizing fa proprio questo.

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