Mondo

Una riflessione sulla grandezza americana

Leggo scrittori Usa, ascolto rock Usa, guardo cinema Usa. Perché? Perché sanno leggere il nostro tempo. Meglio di noi.

di Luca Doninelli

Da bambino, per me l?America voleva dire soprattutto i cow boys. Un giorno però mio nonno mi rivelò che i cow boys c?erano anche in Italia, erano i butteri maremmani. Avevo cinque anni. Disse che i butteri erano anche meglio, perché non ammazzavano gli indiani. Gli chiesi cosa ci fosse di male a uccidere gli indiani. Mi rispose che gli indiani non avevano mai fatto male a nessuno, prima che arrivassero i cow boys. Capire queste cose a cinque anni era dura, ma poco tempo dopo capii perché mio nonno mi aveva detto tutte queste cose. Perché era comunista. Anche a lui piaceva l?America. Solo che lui tifava per gli indiani, tanto che il suo film preferito era Il massacro di Fort Apache. Il contrario di tutto Si poteva, insomma, amare l?America stando da due punti di vista differenti. Si poteva essere razzisti e filoamericani. Si poteva abbracciare la causa dei neri ed essere lo stesso filoamericani, ma di un altro tipo. Negli anni 70 diventò di moda essere antiamericani, ma anche questo è un pensiero americano. Il primo punto della questione è dunque il seguente: poiché l?America è tutto e il contrario di tutto, l?unica vera alternativa all?America è il totalitarismo. La democrazia americana è crudele, consumista, concorrenziale, cinica, ma è la vera democrazia. Ci sono poi gli scrittori. Fin dalla prima adolescenza, io, e con me quasi tutti, leggo soprattutto libri di scrittori americani. Gli ultimi cinque libri di narrativa che ho letto sono di scrittori americani: Carver, Pynchon, McCarthy, Franzen, DeLillo. Il libro che sto leggendo adesso, bellissimo, è un libro americano: Mistery Train di Greil Marcus. Se mi domandate perché leggo libri americani, la risposta è: perché mi viene naturale. Ossia: le parole più importanti sull?Europa sono state dette, nel XX secolo, da autori americani. Questo dipende forse dal fatto che il libro-base sull?America, che è una sorta di seconda carta costituzionale, è stato scritto da un genio profondamente europeo: Alexis De Tocqueville. La democrazia in America, uno dei libri più belli mai scritti, si è impresso in America come un dna. C?è, dunque, un dna europeo in America, che lo scrittore americano in visita in Europa ci ha restituito, unendolo a un elemento totalmente americano. La ?religione? rock Questa è una delle ragioni per cui dico sempre che lo scrittore più importante del XX secolo è Ernest Hemingway. Hemingway non parla molto dell?America (anche se lo fa, altroché!), ma legge l?Europa in chiave americana, ed è una lettura definitiva. Non lo fa con gli strumenti, tipicamente europei, dell?analisi e dell?ideologia. Lo fa perché trasforma il mondo, Europa compresa, in un film. L?America ha portato in Europa la cultura del cinema. I suoi eroi non sono uomini in carne e ossa, sono attori che interpretano la parte di uomini. Nelle sue storie s?intravede sempre la macchina da presa, si avverte la presenza di una truccatrice, di qualche macchinista. E poi c?è il rock. Il rock è una sorta di ribellione contro le origini puritane, è l?espressione della voglia di avere la felicità qui, tutta e subito. è forse l?ideologia americana più forte (o forse sarebbe meglio dire ?religione?), che in Europa e soprattutto in Italia si è colorata di rosso: l?ideologia del ?tutto subito?. è la sacralità dell?eccesso a tutti i costi, che ha prodotto santi. Jimi Hendrix, Jim Morrison, e prima di loro Jackson Pollock, John Coltrane, e poi Miles Davis, e più vicino a noi Kurt Cobain sono tutti santi. Violenti, alcolisti, drogati, vagabondi, disaffezionati a tutto (da On the Road a Easy Rider), ma santi: tutta gente votata a un dio. La paura e il dolore Dopo l?11 settembre c?è stata molta paura in America, e questo è comprensibile. Poiché noi europei ci consideriamo inferiori all?America (anche se la sfottiamo con la nostra classica ironia dimessa), riteniamo quasi impossibile che l?America possa avere paura. Invece l?America ha proclamato al mondo la propria paura e la propria difficoltà, il proprio dolore e anche la propria profonda incertezza sul da farsi. C?è il rischio dell?autoripiegamento, certo. E non è che non lo si avverta, anche da questa parte dell?Atlantico. Però l?America è sempre più vicina di noi alle proprie radici. «Le radici», scrive Grail Marcus, «si afferrano nella misura della semplicità con la quale si accettano», e su questo misura l?importanza del rock?n roll. Io direi che su questo si può misurare la forza stessa dell?umano. Nel giorno di venerdì santo di quest?anno si è celebrata, a New York, una Via Crucis che si concludeva a Ground Zero. A portare la croce è stato un pompiere, uno dei grandi eroi dell?11 settembre. Si chiamava John Bartlett. Bartlett è laureato in biologia ma ha deciso di fare il pompiere perché in quella professione si esprimeva più profondamente il senso di positività, di amicizia, di solidarietà che sono alla base dell?identità cristiana americana. Dopo la Via Crucis, Bartlett ha voluto conoscere gli organizzatori, e ha scoperto che all?origine di tutto c?era un sacerdote brianzolo di quasi ottant?anni, don Luigi Giussani. E ha afferrato le parole di don Giussani come si afferra una radice. Non era mai stato così americano come in quel momento. Quello che ha fatto Bartlett lo fanno oggi migliaia di persone, in tutti gli angoli d?America. Con una semplicità sconcertante. Questa capacità di essere vicini alle proprie radici (anche quando queste vengano rivelate da un prete italiano) è probabilmente la grande forza culturale dell?America. Sean Penn, raggio di sole a Manhattan Il suo passaggio alla Mostra di Venezia ha scatenato polemiche. Selezionato dal nuovo direttore, Moritz De Hadeln nella sezione ?Eventi speciali fuori concorso?, 11?09?01, il film collettivo di 11 grandi registi dedicato ai tragici fatti di un anno fa, ha fatto parlare di sé, prima ancora di essere proiettato, per il presunto ?anti americanismo?. È stato il New York Times a sottolineare come nel film manchi una solidarietà esplicita all?America. Dopo un?anteprima a Parigi e un passaggio, il film esce nelle sale di tutto il mondo, ovviamente l?11 settembre. Il progetto, voluto dai francesi di Studio Canal da un soggetto originale di Alain Brigand, ha avuto il merito di mettere insieme 11 grandi nomi. Si tratta della giovane iraniana Samira Makhmalbaf (figlia di Mohsen, autore di Viaggio a Kandahar), il francese Claude Lelouch, l?egiziano Youssef Chahine, il bosniaco Danis Tanovic (recente premio Oscar con No man?s land), Idrissa Ouedraogo (Burkina Faso), il britannico Ken Loach, il messicano Alejandro González Iñárritu, l?israeliano Amos Gitaï, l?indiana Mira Nair, il giapponese Shohei Imamura e l?americano Sean Penn. Quest?ultimo dirige una storia ambientata proprio in ?quel? quartiere di Manhattan dove un vecchio pensionato (Ernest Borgnine) vive triste e solitario nel ricordo della moglie defunta. Nel suo appartamento, a causa delle Twin Towers, non vede mai il sole: l?abbattimento delle due Torri farà filtrare un raggio di luce ?miracoloso?, tale da far fiorire una piantina sul davanzale. E sono altri gli episodi ?forti?. Come l?amore a New York fra una sordomuta e un fotografo, che si lasciano e si ritrovano dopo l?attentato; gli echi di altri massacri in Bosnia e Israele; i piccoli profughi afghani che costruiscono rifugi . E, ancora, Loach che rievoca il golpe in Cile e mostra Kissinger che si complimenta? «L?11 settembre è stato un attacco simbolico al potere rappresentato dal Wtc e dal Pentagono», ha dichiarato il regista, «l?opposizione a quel potere si articola in molti modi. Il governo americano non può continuare ad agire come ha fatto per anni senza collezionare nemici in tutte le parti del mondo?». Antonio Autieri


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