Si è ricominciato a parlare di droghe. Per lo più – e al solito – in chiave di cronaca nera. Subito dopo torna invece il silenzio, specie da parte delle competenti istituzioni, riguardo le politiche in materia. La legge che la regola sta per compiere trent’anni, il suo bilancio naturalmente è complesso e va articolato, ma reca un segno di fondo innegabilmente negativo, tanto che molti parlano di un generale fallimento.
Se in questi tre decenni il fenomeno è certo mutato sotto molti aspetti, compresi quelli delle sostanze utilizzate e delle forme di loro consumo, altrettanto sicuramente non ha visto un declino e neppure una contrazione dei numeri. Le modalità di assunzione sono divenute meno vistose e rischiose (banalmente, non si trovano più per le strade tappeti di siringhe come un tempo), però le sostanze si sono moltiplicate e divenute ancor più facilmente reperibili. Si è molto ridimensionata la microcriminalità collegata alla necessità di soldi per comprare la dose, poiché questa è divenuta assai meno costosa e, anche perciò, più accessibile.
Trent’anni di guerra a chi consuma droghe
La legge in vigore, n. 162, cosiddetta Iervolino-Vassalli (dai nomi della democristiana Rosa Russo Iervolino e del socialista Giuliano Vassalli, rispettivamente ex ministro degli Affari sociali e della Giustizia, allora ancora contemperata dalla Grazia), era stata varata il 26 giugno del 1990, dopo circa due anni di acceso dibattito in Parlamento, tra i partiti, nella società civile e anche tra gli “addetti ai lavori” direttamente coinvolti: operatori per le tossicodipendenze, comunità terapeutiche, famiglie. Le norme così approvate erano poi confluite nel DPR n. 309 del 9 ottobre dello stesso anno, ovvero nel Testo unico in materia di disciplina degli stupefacenti.
Si trattò di una svolta marcatamente punitiva, che aveva trovato impulso e radici nella fascinazione del leader socialista Bettino Craxi per la filosofia della “tolleranza zero” di Rudy Giuliani, al tempo procuratore federale e in seguito sindaco repubblicano di New York, e che può a ragione essere considerata la clonazione italiana del piano antidroga voluto e introdotto dall’allora presidente statunitense George Bush senior, in continuità con la linea del suo predecessore, Ronald Reagan, di cui era stato vice.
La dichiarata intenzione del nuovo approccio repressivo statunitense, che era arrivato persino a prevedere la pena di morte per gli spacciatori, era quella di colpire duramente anche i semplici consumatori. Lo aveva affermato a chiare lettere la first lady Nancy Reagan in un’assise delle Nazioni Unite: «È più facile prendere i grandi trafficanti che punire due avvocati di Wall Street che sniffano cocaina durante la pausa del pranzo». I consumatori di droga erano invece da considerarsi a tutti gli effetti complici di ogni atto e ogni omicidio compiuto dai narcos e dai cartelli criminali, allora particolarmente virulenti e potenti, specie quelli colombiani.
Naturalmente, la war on drugs da allora ha portato nelle carceri ben pochi traders e professionisti del Foro, mentre le ha riempite di milioni di normali cittadini, di preferenza di basso ceto sociale. Tanto che oggi gli Stati Uniti sono il primo paese al mondo per numero di reclusi: circa 2 milioni e 300 mila distribuiti in ben 4.500 prigioni; sono in larga parte ispanici e neri, laddove è stato calcolato che questi ultimi hanno sei volte più possibilità di essere imprigionati per reati connessi alla droga.
Punirne mille per dissuaderne uno
Sulla stessa scia si è mossa la legge italiana, che aveva posto come fondamento ideologico e programmatico quello di punire chiunque consumasse droghe. Analoghi sono stati i risultati. Da subito la Iervolino-Vassalli aveva cominciato a riempire le celle di malcapitati, per lo più giovani delle periferie, ma talvolta anche di buona famiglia, compresi personaggi noti del mondo dello spettacolo, arrestati o sottoposti a giudizio magari solo per un paio di spinelli. Nel luglio 1991, nel giro di pochi giorni, tre persone arrestate per droga si suicidarono in carcere. Tra di esse Stefano Ghirelli, 18 anni appena compiuti, incensurato, condotto nel carcere di Ivrea poiché trovato con 25 grammi di hashish; si impiccò dopo il rifiuto del giudice di concedergli la libertà provvisoria per “pericolosità sociale”.
Se l’obiettivo dichiarato era quello di colpire i consumatori, equiparandoli agli spacciatori, va detto che venne in effetti presto raggiunto: al 31 dicembre 1990 i tossicodipendenti in carcere erano 7.299, soli due anni dopo erano esattamente raddoppiati, 14.818. Crescita immediata anche delle morti per droga: nel 1990 superarono per la prima volta le mille unità, arrivando a 1.161; l’anno dopo salirono ancora a 1.382, nel 1992 furono 1.217, per arrivare al picco di 1. 566 nel 1996 e poi gradualmente decrescere. Nel 2018 le vittime sono state 251, con un’età media di 38 anni e mezzo. Nel 2019, secondo il sito geoverdose.it, al 7 novembre sono 208, di cui 128 per eroina, con 39 anni e mezzo di età media.
Guardando le cifre dall’inizio delle rilevazioni, il 1973, a oggi i numeri sono effettivamente quelli di una guerra: 25.528, laddove il nemico e le vittime non sono però le droghe bensì chi le consuma, spinto dalla legge a una maggior clandestinità e distanza dai servizi terapeutici, obbligati dalle norme alla denuncia, accrescendo così i rischi sanitari e quello stesso della vita.
Una legge micidiale
Quelle evidenze e i dati sul crescere della letalità, peraltro, non misero in crisi le convinzioni dei sostenitori della legislazione repressiva, tanto che il ministro Rosa Russo Iervolino rivendicò: «L’aumento dei decessi non rappresenta certo una smentita della validità della legge, anzi secondo me ha il valore di una conferma» (“la Repubblica”, 8 febbraio 1991).
Quella funesta legge è stata poi addirittura peggiorata dalla successiva modifica Fini-Giovanardi, intervenuta nel 2006, che oltre a inasprire le sanzioni aveva abolito ogni distinzione tra droghe “leggere” e “pesanti”, venendo poi bocciata per illegittimità costituzionale solamente nel 2014.
Sono dunque dovuti intervenire i giudici per correggere le forzature ideologiche e propagandistiche e le storture legislative, per supplire a errori e inerzie della politica. Del resto, ciò è spesso avvenuto anche su altre materie: si veda, ad esempio, la recente sentenza della Consulta sull’ergastolo cosiddetto ostativo, tesa a ribadire le finalità rieducative della pena e la sua umanizzazione. Interventi comunque non sufficienti né risolutivi. Basti dire che oggi in carcere vi sono quasi 20mila tossicodipendenti, ma ancora maggiore è il numero di quanti sono comunque imprigionati per violazioni delle diverse norme sulle droghe: circa la metà del 60mila reclusi attualmente presenti.
Ancora più eloquente è il numero delle persone sottoposte a procedimenti penali in virtù di quella legge: nel 2018 hanno superato le 178mila unità; nello stesso 2018, quasi 40mila persone sono state segnalate ai prefetti per uso di sostanze stupefacenti illegali, e tra queste l’80% per consumo di cannabinoidi.
Dal 1990 al 2018 le segnalazioni ai prefetti per consumo di sostanze stupefacenti sono state un milione e 267mila persone, in gran parte a carico di giovani, molti dei quali colpiti dal ritiro del passaporto e della patente o da sanzioni di altro genere.
Anche queste, dunque, sono cifre di una guerra cominciata 30 anni fa e che ha prodotto, a vari livelli, centinaia di migliaia di vittime.
Una Conferenza sulle droghe autoconvocata
Come ha detto Vasco Rossi, che proprio per questi motivi ha provato sulla propria pelle lo stigma e la perdita della libertà, «punire il drogato con il carcere è come schiaffeggiare un bambino caduto dalla bicicletta per fargli capire che non doveva salirci».
I “bambini” continuano a cadere dalla bicicletta e lo Stato persevera nel rifilare loro sonori e ripetuti ceffoni e talvolta anche calci, mentre i governi succedutisi si sono ben guardati non solo da un ripensamento reso necessario dalle evidenze, ma anche da una verifica e da riflessione aperta e seria. Il che, peraltro, sarebbe un obbligo di quella stessa legge, la quale dispone che ogni tre anni il Presidente del Consiglio convochi una Conferenza nazionale governativa sulle droghe, le cui conclusioni «sono comunicate al Parlamento anche al fine di individuare eventuali correzioni alla legislazione antidroga dettate dall’esperienza applicativa». Ebbene, tale obbligo normativo viene eluso ormai da dieci anni.
Per questo motivo associazioni, comunità terapeutiche, sindacati e operatori stanno organizzando una Conferenza autopromossa e autoconvocata (cfr. https://www.conferenzadroghe.it). Si terrà a Milano, ospitata dalla Camera del Lavoro, dal 31 gennaio al 1° febbraio 2020 e ha un obiettivo assai ambizioso: costruire la pace, dopo i trent’anni di guerra voluta da governi miopi e da partiti politici pusillanimi o, peggio, votati al populismo penale e alla criminalizzazione dei più deboli. Si tratta ora di innescare un cambio di rotta radicale per, finalmente, pensare e attivare strategie di regolazione sociale e culturale alternative a quelle penali. Un confronto tra operatori e istituzioni, capace di valorizzare le esperienze sul campo e di dialogare con gli scenari e le politiche globali poiché, dice il documento di convocazione «è improrogabile una riforma della legge antidroga che preveda la completa depenalizzazione e decriminalizzazione di tutte le condotte legate al consumo personale e la ridefinizione e riscrittura del sistema dei servizi e degli interventi capace di integrare definitivamente il modello della Riduzione dei Danni e dei Rischi, superando i modelli patologici e colpevolizzanti, e stabilendo gli standard nazionali, qualitativi e organizzativi, per rendere uniformi i sistemi regionali e stabili i vincoli di spesa».
Alla legge Iervolino-Vassalli che voleva sorvegliare e punire i suoi critici opponevano la parola d’ordine “educare, non punire”. Trent’anni dopo si riparte dallo stesso punto. Con nel mezzo tante e tante sofferenze, morti, carcerazioni ingiuste che reclamano finalmente di cambiare.
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Photo by Ivo Kruusamägi [CC BY-SA 4.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0)]. Graffito di Edward von Lõngus
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