Fra pochi giorni scadrà il termine per l’emanazione dei decreti legislativi sulla Riforma del Terzo Settore (2 luglio 2017).
Tante le attese, le frustrazioni, le speranze, le critiche, gli aspetti positivi e negativi.
Non è ancora il momento di entrare nel merito di un provvedimento ancora in discussione e così complesso.
In attesa di rompere, finalmente, questo lungo silenzio dovuto a 2 anni di “lavori in corso”, vorrei parlarvi di una best practice che, tuttavia, ci dice molto del “cambiamento in atto”.
Si tratta di un’importante Impresa sociale di Prato che, nel corso degli anni, ha aiutato la città e decine di migliaia di suoi concittadini.
Costituita, qualche anno fa, dal più importante imprenditore della zona. Tra gli uomini più ricchi d’Italia, di fama mondiale, la sua storia è quella di un “self made man” all’italiana.
Da piccolo orfano di una famiglia di umili origini ha costruito un impero economico. Nel giro di alcuni anni, è riuscito a collegare alla sua holding, decine di società di capitali, di aziende multinazionali operanti nei più svariati settori: da quello bancario al tessile, all’agroalimentare, ecc.; con sedi nelle principali piazze d’affari del mondo.
Ma la sua più grande impresa è stata l’ultima.
Qualche anno fa, non avendo avuto figli ed essendo orami prossimo alla morte, ha lasciato tutto il suo impero ad un’impresa sociale da lui stesso costituita allo scopo di aiutare la città di Prato, i suoi cittadini e, innanzitutto, le persone poste ai margini della società civile.
Era il 1410 e in quell’anno veniva costituito il “Ceppo pe poveri di Cristo”, tutt’oggi esistente come fondazione di diritto privato, Onlus sul piano fiscale, ex Ipab su quello pubblicistico!
Il fondatore è Francesco Datini, uno dei mercanti medievali più importanti della storia, non soltanto per le sue doti imprenditoriali, ma anche per aver lasciato in eredità un archivio di 150.000 lettere che rappresentano pietre miliari per la comprensione delle regole aziedalistiche e commerciali del tempo.
L’economia di mercato nasce nell’Alto Medioevo, dunque, e con essa l’economia sociale (o civile) di mercato. Impresa for profit e sociale (o civile) coesistevano già allora.
È l’illuminismo, in particolare, ad aver separato il Mercato dal Civile, impendendo al secondo di accedere al primo[1]. L’intento di evitare la c.d. manomorta, di agevolare la circolazione della ricchezza, il pregiudizio dell’improduttività dei c.d. patrimoni destinati scopi di utilità sociale, la visione di contratto sociale stipulato direttamente dal singolo cittadino con lo Stato, la consequenziale allergia per i corpi intermedi, l’affermarsi, infine, di un modello di società di mercato di tipo capitalistico, sono solo alcuni degli elementi culturali che hanno determinato un certo substrato culturale pregiudizievole contro il c.d. Terzo Settore e che, come un fiume carsico, ha attraversato i secoli, le mentalità, i codici legislativi.
L’imminente disciplina sull’impresa sociale è il frutto di un lento ritorno al passato; è il lento riannodarsi di una tradizione interrotta che non si stupiva di fronte ad un modello organizzativo imprenditoriale volto a perseguire uno scopo civico, solidaristico e di utilità sociale, piuttosto che meramente lucrativo.
Artefici di questo modello imprenditoriale erano, spesso, quegli stessi mercanti che, oltre a far “affari”, si ponevano il problema del Bene comune, dell’interesse della rinascente civitas. Mercato e Civile, Etica ed Economia crescono insieme, in quel periodo, anche grazie all’influenza del pensiero francescano e alle speculazioni sulla differenza tra i concetti di usura e di interesse.
Un’ulteriore occasione per riscoprire quel Medioevo sul cui giudizio negativo tanto ha pesato l’ideologismo illuminista e la necessità di cancellare l’ancien regime, tout court.
E dunque ritorno al passato! In attesa di vedere e capire con che tipo di impresa sociale e di Terzo settore avremo a che fare.
Forti di una tradizione che, in Italia, è passata anche attraverso l’esperienza importante della cooperazione sociale alla cui disciplina sembra tanto rifarsi quell’odierna sull’impresa sociale. Anche se le differenze non mancano, come quella sulla mancata estensione della de-contribuzione del costo del lavoro delle persone svantaggiate impiegate.. Forse uno dei vantaggi reali e più importanti che la cooperazione sociale ha, vista l’incidenza del costo del lavoro! E che le imprese sociali in senso stretto potrebbero non avere?
Lo scopriremo solo vivendo… anche se la Storia, come abbiam visto e per fortuna, è molto più lunga…
[1] Per trovare i capi d’accusa dell’illuminismo verso un tale modello d’impresa, basta leggere le pagine dell’Enciclopèdie di Diderot e D’Alambert. Alla voce sulla “fondazione”, curata dal potente Turgot (Ministro delle Finanze di Luigi XVI), si parlava di quello che, oggi, potremmo in generale definire – Terzo Settore -, come di un “istituto utile solo a soddisfare l’aspirazione, tanto vana quanto egoista, dell’individuo all’eternità, ma che si traduce, di fatto, nell’impoverimento di quanti sopravvivono e tale da evocare, quando fosse consegnato all’autonomia individuale, l’immagine di un supplizio di Tantalo, ossia l’immagine di un’umanità condannata all’indigenza per aver cristallizzato in forme giuridiche improduttive le proprie ricchezze, ad un tempo percepibili e inaccessibili”. Si veda A. Zoppini, in Le fondazioni, Napoli, 1995, pp. 24 e 25.
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