Cultura

Billie Eilish, il fenomeno di cellophane

di Lorenzo Maria Alvaro

Capelli colorati, abbigliamento accuratissimo, immaginario distopico e disturbante, basi minimal ma con una cassa ben definita e distinta, testi venati, per dirla con Internazionale, di «una cupezza antica, che sembra quella di una donna molto più grande di lei». Sono questi gli ingredienti principali del fenomeno Billie Eilish.

Prima in ogni classifica del pianeta la 17enne americana piace proprio a tutti, ma in particolare agli adulti. Sono settimane che vedo postare in ogni dove video del vinile del suo primo album girare. E si sa che sono i 30/40enni a comprare i dischi. Per questo scrivo di Billie Eilish. E non per elogiarla.

Penso sia uno prodotto costruito a tavolino. Puzza tutto di cellophane, di plastica. Ha un’immagine, attentamente studiata per sembrare che non lo sia (una Pinuchosky per dirla con Ensi). C'è il must dei capelli colorati (blu, verdi, viola), le immancabili tute in stile la Casa di Carta il tutto accompagnato da tocchi inquietanti (come il sangue dal naso o il sorriso allucinato della copertina del disco). Una cucina sapiente, che non può essere pensata e costruita da una ragazzina di 17 anni, rende il tutto patinato e pulito. Ma venendo al cuore della produzione, di cui l'estetica è solo un involucro, ci sono testi tardo adolescenziali in cui, facendo costantemente l'occhiolino a questioni anche serie come suicidio, depressione e altre cupezze assortite in realtà non dice quasi mai nulla. È tutto lasciato all'ascoltatore che si fa il proprio film condizionato dal packaging. La musica è una scopiazzatura di roba che esiste da quindici anni ma senza l'eleganza e la pulizia di James Blake, senza il caleidoscopio di suoni e sfaccettature dei Caribou o la maestria dei Moderat.

Un buon esempio può essere “Bury a friend” (singolo estratto da “When We All Fall Asleep, Where Do We Go?”) in cui su una base che dovrebbe essere, nelle intenzioni, minimal, ma sostenuta invece da una linea di cassa da Cocoricò di Riccione senza la quale non esisterebbe neanche la canzone, la ragazzina canta di un amico presumibilmente morto e al massimo del climax canta “I wanna end me” (voglio farla finita). Non mi viene in mente nulla di più banale e stereotipato.


Non è un caso che Billie Eilish sia di Los Angeles. È un ottimo prodotto di Hollywood. Come scrive involontariamente Internazionale, «quasi nessuno nella musica leggera contemporanea lavora così bene con gli effetti vocali». Ecco la parola chiave: musica leggera. Nonostante in tanti urlino al miracolo la verità è che siamo di fronte alla versione innocua e vaccinata di un genere più dirimente.

La cosa straziante è che a cascarci sono i diversamente giovani, cioè gli adulti della mia generazione, che però si sentono ancora teenager. Gente che dovrebbe conoscere bene il malessere nella musica visto che è venuta grande nei ’90. E invece, probabilmente perché in debito di una adolescenza e di una ribellione vissuta fuori tempo massimo, a loro piace baloccarsi fingendo di essere dei depressi o fingendo di avere problemi adolescenziali. Ecco perché sguazzano in questi testi finto impegnati: li fa sentire bene, permette loro di crogiolarsi in questa finzione. Questo mentre invece i veri ragazzini hanno capito, fortunatamente, che non possono perdere tempo e ascoltano altro.

Per chiudere: ogni volta che sento questo tipo di testi sorretti dalla loro fotografia pulitina e ragionata ripenso al mio amato Layne Staley che con i suoi Alice in Chains si presenterà sul palco dell'Mtv Unplugged nell'aprile del 1996, pochi mesi dopo la morte del grande amore della sua vita, Demri Lara Parrott.

Dolore vero, pungente, straziante. Sorretto da una voce che veniva direttamente dall'inferno. Quel dolore nel giro di pochi anni lo ucciderà sotto forma di eroina. Basta guardarlo emaciato e senza forze per capire che non c'è finzione. Che quello che canta è tatuato a fuoco nell'anima. Basta guardarlo per capire che i patimenti di Billie Eilish sono solo una recita. Perché (per parafrasare una vecchia canzone degli Articolo 31) solo chi non sa cosa vuol dire può pensare che sia qualcosa di cui vantarsi.

17 centesimi al giorno sono troppi?

Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.