Mentre la riforma del Terzo Settore, a distanza di poco più di un anno dal suo avvio ufficiale, pare ancora in un impasse normativo e burocratico, altri Paesi ne cominciano a studiare gli effetti e la struttura.
Tra questi, la Turchia, un Paese di antichissime tradizioni, anche giuridiche e sociali, a cavallo tra Oriente e Occidente.
Si tratta di uno dei “Paesi candidati all’adesione all’Unione”. Anzi quello di maggiori dimensioni, con circa 80,8 milioni di abitanti e un territorio di 783 562 chilometri quadrati. La metà della popolazione ha meno di trent’anni e il 73% della popolazione totale vive nelle aree urbane. Da sempre, si tratta di un Paese in posizione strategica, fra l’Europa e l’Asia; vicino al Medio Oriente; confinante con altri otto paesi, tra cui due Stati membri dell’Unione; con sbocchi sul Mar Nero, sul Mediterraneo e sull’Egeo[1].
Sul piano sociale, la situazione turca è del tutto particolare, soprattutto sotto il profilo dell’accoglienza dei migranti. I numeri dell’accoglienza turca fanno impallidire qualsiasi confronto con quelli del dibattito italiano[2]. A tale situazione si sommano problemi più strutturali come quelli legati all’alto tasso di povertà relativa, alle disuguaglianze nella distribuzione del reddito, alla scarsa occupabilità delle persone vulnerabili.
Durante il periodo iniziato nel 2014, e soprattutto in seguito al tentativo di golpe del luglio 2016, le relazioni tra la Turchia e l’UE sono diventate più difficili. A pesare, in particolare, l’indebolimento dello Stato di diritto e della tutela dei diritti fondamentali, che rappresentano il fulcro del processo di adesione. La società civile è stata sottoposta a una pressione crescente, con limitazioni della libertà di espressione e l’arresto di giornalisti, attivisti, difensori dei diritti umani, ecc. La libertà di riunione continua ad essere eccessivamente limitata, nel diritto e nella pratica, attraverso il frequente ricorso al divieto di manifestazione o altri tipi di riunione.
È in tale contesto che la Commissione ha chiesto alla Turchia di lavorare maggiormente su questi diversi fronti e, per quanto ci interessa, su quello delle politiche sociali.
Da quest’esigenza, è nata l’idea, per la Turchia, di studiare più da vicino la riforma del Terzo Settore italiano.
Lunedì 22 ottobre, una delegazione turca, composta da rappresentanti del Ministero degli Affari Esteri, del Ministero dell’Interno e da membri delle organizzazioni della società civile, ha incontrato lo scorso 22 ottobre gli esperti dell’Agenzia delle Entrate per discutere e approfondire le tematiche fiscali legate al Terzo Settore.
Mentre altri Paesi studiano la nostra riforma, in Italia si è ancora in attesa delle decine di decreti e risposte amministrative ai numerosi quesiti provenienti dalla società civile.
Nonostante la proroga dei termini per l’adeguamento dei propri statuti, il tempo passa e gli enti s’interrogano sul da farsi, in un clima di forte incertezza, soprattutto in relazione alla parte fiscale della riforma che, a quanto si apprende, è destinata a subire ulteriori aggiustamenti. Quest’ultimi, peraltro, potrebbero ulteriormente complicare il già complesso quadro normativo. Il travagliato art. 79 del cts, in particolare, sembra non avere pace. Nato male, per effetto dell’incauta scelta di incasellare gli enti dentro il binomio della commercialità/non commercialità[3], pare destinato ad essere ulteriormente modificato con la previsione di un meccanismo di “tolleranza” del 10% che potrebbe risultare di ancora più difficile e incerta applicazione. Il tutto, ovviamente, rimanendo sub iudice della Commissione europea, chiamata ad autorizzare le agevolazioni fiscali riconosciute dal nuovo codice.
In tale clima, il Consiglio nazionale del Terzo Settore, organo di massima rappresentanza del settore, non è mai stato convocato dal nuovo Governo che ha preferito interfacciarsi direttamente con i singoli enti.
La situazione del Paese – del nostro Paese – ha naturalmente tante esigenze e problematiche.
Sarebbe bello che questa Riforma (ed il suo percorso attuativo) fosse vista come parte della soluzione. Se può esserlo per i Turchi, dovrebbe esserlo anche per noi…
[1] Dati tratti dall’allegato della Decisione di esecuzione della Commissione che modifica la decisione C(2014) 5998 della Commissione, del 26 agosto 2014, con la quale è stato adottato il documento di strategia indicativo per la Turchia per il periodo 2014-2020.
[2] Fino a marzo 2018 la Turchia ha ospitato circa 3 547 000 rifugiati siriani2 (1 923 000 uomini e 1 624 000 donne) e 365 000 richiedenti protezione internazionale. I rifugiati siriani sono stati inoltre aiutati per mezzo del contestato strumento dell’UE per i rifugiati in Turchia. Alla fine di dicembre 2017 l’intera dotazione dello strumento, pari a 3 miliardi di EUR, era stata impegnata e appaltata dal punto di vista operativo attraverso 72 progetti. Tutti i contratti sono in corso d’attuazione.
[3] Sia consentito il rinvio ad A. Mazzullo, Il nuovo codice del Terzo Settore, Giappichelli, 2017; e Id., Diritto delle imprese sociali, Giappichelli, 2019 (in corso di pubblicazione).
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