«È il tributo a una grande comunità di musicisti e amici e soprattutto a un’epoca unica e irripetibile». È così che Mauro Ermanno Giovanardi definisce il suo ultimo disco solista, “La mia generazione” uscito oggi.
La peculiarità dell’album è che non si tratta di una raccolta di inediti. È una raccolta di cover. 13 pezzi la cui peculiarità è quella di essere pietre miliari di un certo periodo e di un certo ambiente: quello della musica rock indipendente degli anni ’90.
Il video del primo singolo, “Aspettando il sole” di Neffa
«Un omaggio ad una scena capace di uscire dai centri sociali e salire sui palchi dei grandi festival o dei teatri», spiega Giovanardi, che con i suoi La Crus faceva parte di quel movimento, «A più di vent’anni di distanza non riesco ancora a spiegarmelo. Sicuramente, il salto di qualità c’è stato quando le major hanno iniziato ad accorgersi di noi. Ma un grande lavoro lo hanno fatto anche le etichette indipendenti: Mescal e Consorzio Produttori Indipendenti. Non solo sono riuscite nell’impresa di entrare in contatto con le grandi case di produzione, ma soprattutto riuscivano a capire cosa poteva funzionare e cosa no. E non era così scontato».
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Così in scaletta convivono Afterhours, Casinò Royale, Massimo Volume, Neffa e i messageri della Dopa, CSI, Üstmamò, Marlene Kuntz, Subsonica e Cristina Donà.
«Canzoni differenti, sia per stile che per sonorità, che ho voluto cantare con alcuni dei protagonisti di quegli anni, facendoli però confrontare con pezzi altrui. Questo perché volevo sottolineare l’unità della scena. Anche se le canzoni non erano tue era come se lo fossero», aggiunge l’artista.
Io ho sempre trovato inutili le recensioni. In questo caso sarebbe veramente superfluo: per chi ha amato quel momento, quel periodo e quella scena è un viaggio nostalgico e entusiasmante, per chi invece non ne sa nulla è un modo per scoprire una musica italiana che riuscì a superare il proprio provincialismo e diventare credibile e contemporanea.
Un’operazione quella di Giovanardi che trovo molto bella anche perché si riferisce ad un periodo, quegli anni ’90, che difficilmente vengono celebrati. Non sono gli anni ’70 delle ideologie e della politicizzazione o gli ’80 del sogno americano all’italiana e della Milano da bere. Una decade che riportò tutti con i piedi per terra e in cui, perse le velleità rivoluzionarie di cambiare il mondo e svelata la truffa del mito del “self made man”, lasciò un vuoto di disillusione e inquietudine.
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