Quando quasi un anno fa, dopo i primi mesi di diffusione dell’epidemia da covid-19 nel nostro Paese, scrivevo che la narrazione dell’impegno contro la pandemia in corso come una guerra non è solo un espediente metaforico ma, per le notevoli implicazioni culturali e politiche che questo racconto porta con sé, per il mondo di significati che costruisce, si configura come un vero e proprio paradigma interpretativo – e ne elencavo i dieci errori principali (https://www.azionenonviolenta.it/pandemia-come-guerra-ossia-la-banalizzazione-della-complessita-i-dieci-errori-di-un-paradigma-sbagliato/) – non potevo immaginare che quasi un anno dopo quel paradigma si sarebbe pienamente inverato nella nomina di un generale di corpo d’armata a Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19.
In verità non ero stato il solo a paventare questo pericolo. Lo evocava, tra gli altri, Giancarlo Sturloni su Il Tascabile (31 marzo 2020): “Il ricorso al linguaggio bellico in medicina e sanità può avere un che di ironico, considerando che la missione della medicina è salvare vite umane. Ma certo non è privo di conseguenze perché, come argomentano George Lakoff e Mark Johnson nel saggio Metafora e vita quotidiana (2005), le metafore radicate nei nostri linguaggi (tecnici o quotidiani che siano) orientano le percezioni, i pensieri e l’azione. Parafrasando il filosofo francese Paul Ricœur, le metafore servono per descrivere una nuova realtà, ma al tempo stesso finiscono anche per creare una nuova realtà” . Come, del resto, lo avvertiva anche Annamaria Testa su Internazionale (30 marzo 2020): “L’automatismo della metafora bellica mi sembra troppo persistente e diffuso per essere ridotto a pura sciatteria lessicale.”
Infatti, il paradigma bellico è stato ripreso pienamente dal presidente Mario Draghi – che certo non può essere accusato di sciatteria lessicale – nelle dichiarazioni programmatiche dello scorso 17 febbraio al Senato della Repubblica: “Il principale dovere cui siamo chiamati, tutti, io per primo come presidente del Consiglio, è di combattere con ogni mezzo la pandemia e di salvaguardare le vite dei nostri concittadini. Una trincea dove combattiamo tutti insieme. Il virus è nemico di tutti.” E come coerente corollario – dopo aver affidato il ministero della “transizione ecologica” al capo dell’innovazione tecnologica di Leonardo-Finmeccanica, ossia ad un esperto di armamenti – ha affidato la gestione dell’emergenza covid-19 direttamente all’esercito, attraverso la figura del generale Figliuolo nominato Commissario straordinario. E’ un salto logico che attribuisce alla metafora non solo il ruolo di narrazione simbolica, ma di generazione della realtà, esplicitato in tutte le sue implicazioni dalla ex ministra della difesa Roberta Pinotti (intervista a TPI, 1 marzo 2021): “Se vogliamo arrivare ad avere le vaccinazioni di massa – perché questo è il nostro obiettivo – noi dobbiamo immaginare un’organizzazione militare. In questo senso chi militare è mi pare particolarmente adatto”.
Draghi e Pinotti come l’uomo (e la donna) con il martello – a proposito di metafore – che vede tutto il mondo come un chiodo, ossia come una guerra da combattere con l’unico strumento di cui si è dotato, quello militare. Ma come spiegava Susan Sontang, a proposito di un’altra epidemia, “non stiamo subendo un’invasione. Il corpo non è un campo di battaglia. I malati non sono né vittime inevitabili né nemici. Quanto alle metafore, quelle militari, io direi, se mi è concesso parafrasare Lucrezio: restituiamole a chi fa la guerra” (L’aids e le sue metafore, 1988). Anzi, aggiungerei, cancelliamo il paradigma della guerra dal nostro orizzonte di senso, sia come metafora che come realtà, decostruendo lo strumento militare e potenziando, con le risorse liberate, gli strumenti civili degni di questo nome, che ci difendano e ci proteggano anche dalle epidemie. Anche il nostro immaginario ne risulterà liberato
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