Ha ragione Valerio Neri nell’intervista rilasciata a Vita pochi giorni fa: “Più aumenta il bisogno sociale, più le organizzazioni devono crescere in competenza, know how, capacità di gestione.”. Il titolo, a dire il vero, è più esplicito di così: con Al Terzo settore serve più competenza presenta un Terzo settore che, purtroppo, pecca in termini di capacità manageriali. Sappiamo bene che la buona volontà è la condizione più diffusa nelle 345mila organizzazioni italiane ma quanto a cultura imprenditoriale, il settore sociale ancora non sa farci del tutto i conti.
In termini di fundraising, questo deve farci pensare e portarci a riflettere su come provare a intervenire per invertire lo stato delle cose.
Minori competenze giocano a favore della crescita delle big player nella richiesta del dono. La distanza tra chi sa chiedere e chi no aumenta con impatto sulle risorse raccolte, complice una maggiore cultura del dono che porta le prime a investire su teste, tecniche e metodi sempre più efficaci. Questo significa che sul mercato vi sono competenze di alto livello dalle quali attingere vivacità e ispirazione.
Allo stesso tempo, stiamo per assistere a un paradosso: le risorse accademicamente formate giungeranno presto a un numero tale da essere non assorbibile dal mercato presente, non almeno come vorremmo. Non siamo ancora a quel punto ma alcuni primi segnali arrivano, ahimè, e vanno interpretati:
- da una parte, una certa incapacità da parte delle organizzazioni di offrire luoghi di lavoro “stimoltanti” dal punto di vista più propriamente intellettuale con, ovvero, la possibilità di mettere in pratica ciò che si è appreso sui banchi;
- dall’altra, una visione “esperienziale” di breve periodo che termina al termine del periodo di tirocinio. Il fundraising, diversamente, merita tempo per dare ritorni di un certo peso, un tempo che molte nonprofit non hanno il tempo di darsi (mi si perdoni il gioco di parole). A perderci, l’organizzazione che pensa di aver perso tempo, e il fundraising che l’organizzazione finisce per ritenere una perdita, oltre che di tempo, di soldi.
La conseguenza più probabile? Un disamore al settore da parte delle giovani leve, maturata dall’idea di un sistema immobile e incapace. Questo, oltre a confermare l’immutabilità delle cose, potrebbe poi tradursi in un “non dono” nel futuro. Insomma, una doppia conseguenza con un impatto non di poco conto.
La mia è una provocazione naturalmente, ma fino a che punto poi?
L’esperienza maturata in questi anni nella formazione e nella consulenza mi porta ad affermare che sì,
il Terzo settore ha bisogno di management preparati, oltre che di buona volontà, che pensino a formare se stessi al ruolo come prima cosa.
Questo favorirebbe l’inversione di cui parlavo più sopra.
Non esiste nessun lavoro perfetto ma il nostro settore ha tutti i crismi e le qualità perché, a questa qualità, ci si avvicini moltissimo.
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