Come i lettori di Vita sanno bene, fra i temi centrali della Riforma del Terzo settore -ma in generale di questa epoca del terzo settore- c'è la valutazione dell'impatto sociale. Quello che accadrà nei prossimi mesi sarà forse la definizione, per la prima volta in Italia, di un approccio condiviso orientato alla costruzione di un processo di valutazione che, come ben sintetiza la coordinatrice dell'area ricerca di Aiccon Sara Rago, "si caratterizzi per essere un’autovalutazione delle attività attraverso la produzione di dati oggettivi e verificabili, mettendo a disposizione di terzi soggetti un sistema di indici ed indicatori individuati coerentemente rispetto alla dimensione e alle finalità dell’organizzazione”.
Un gruppo di lavoro ministeriale sta lavorando alle linee guida sulla valutazione dell’impatto sociale negli enti del terzo settore e sicuramente i risultati della loro opera faranno discutere e orienteranno il dibattito. Ci auguriamo possano trovare una credibile sintesi e un'accessibile porta di ingresso ad una pluralità di approcci che hanno comunque iniziato a dialogare e a mettersi in ordine, orientati dalle evoluzioni dell'impresa sociale.
Perché valutarsi ed essere valutati
Da anni gli Enti del Terzo Settore e i suoi finanziatori, in particolare le Fondazioni di origine bancaria, sono impegnati nell'uso di strumenti di valutazione, se non di misurazione, dell'impatto sociale: oltre a riempire un gap di metodo che il terzo settore ha accumulato nei decenni nei confronti di altri contesti europei ed internazionali, la pratica della valutazione si è affermata contestualmente alle evoluzioni dei sistemi di welfare locali. Centrale è la necessità di assumere in maniera rigorosa una responsabilità e un'affidabilità verso le comunità di riferimento: la valutazione non è un mero esercizio accademico, ma nasce dalla consapevolezza che siamo passati dal modello di welfare state a quello di welfare society con il superamento della dicotomia stato-mercato. In questo modello cambia la geografia degli attori e degli stakeholder.
Un protagonismo che non può essere liquidato dall'elencazione dei principi ispiratori, degli obiettivi, dei valori e anche dei risultati degli interventi; ma assume più valore se diventa un elemento "di processo".
Un secondo elemento cruciale è legato, a nostro parere, ad una sorta di reazione virtuosa ad un certo calo di reputazione che il terzo settore, in particolare quello orientato all'impresa sociale e soprattutto le cooperative sociali, ha subito dopo alcuni recenti scandali giudiziari e mediatici: reagire per dimostrare in maniera responsabile e trasparente che il "settore" è "ben tracciato" in tutta la filiera e la sua azione sulla società non solo è positiva, ma necessaria.
uesto secondo elemento ha dato una certa accellerazione alla necessità di smetterla con la valutazione artigianale, ma di iniziare ad assumere metodi più seri, se non scientifici.
Un terzo elemento decisivo è legato all'inserimento da parte di molti ed importanti enti finanziatori della valutazione di impatto sociale come elemento di processo esplicito nei progetti nell'assegnazione di risorse tramite bando. In questo senso la comunità scientifica, in particolare alcuni suoi centri di eccellenza che da anni sono impegnati sul tema, stanno mettendo a frutto l'opera di ricerca e sperimentazione avviata anni fa con poche risorse e molta passione.
Un quarto elemento molto rilevante -ma chiaramente tutti questi temi sono interrelati strettamente fra loro- è inserito nel riordino e nel rilancio dell'impresa sociale che ha legato per la prima volta in Italia la necessità di dare importanza all'impatto generato per poter beneficiare di strumenti di finanza sociale.
Ma non esiste solo una valenza esterna dei processi di valutazione, bensì un movimento di attribuzione di valore sul piano interno: è anche un potente strumento di empowerment a disposizione degli enti del terzo settore per rafforzare la consapevolezza delle proprie risorse umane e rigenerare le motivazioni rispetto alla loro identità. Sono loro a generare l'impatto con il proprio lavoro, sono loro a poter beneficiare della spinta motivazionale dovuta anche alla proiezione pubblica dell'impatto generato.
In tale contesto, che non pretendiamo di esaurire in modo rigoroso ma che ci è utile per affrontare il tema dal punto di vista della comunicazione, risulta molto chiaro come le implicazioni della valutazione di impatto siano molto ampie e, come abbiamo già detto, non possano risolversi in una questione da scienziati. O meglio: gli scienziati seduti al tavolo di questo processo hanno un ruolo fondamentale nell'indirizzare gli enti del terzo settore verso un corretto approccio. Un tavolo intorno al quale deve trovare ruolo e identità anche quella funzione fondamentale nel terzo settore che è la comunicazione.
Perché comunicazione e impatto sociale sono legati
Sara Rago sintetizza con la formula "impatto vuol dire fiducia" uno dei significati più impellenti della necessità di valutarsi e farsi valutare (i due processi non coincidono, ma sono legati e necessari l'uno all'altro). "Più le organizzazioni saranno in grado di dare evidenza dell’impatto generato dalle proprie attività rispetto alle comunità di riferimento -scrive- tanto più riusciranno a facilitare la costruzione di relazioni con la comunità stessa e, quindi, con le persone che possono sostenerle economicamente anche attraverso i dispositivi introdotti dalla riforma”. Aggiungiamo, dal nostro punto di vista, che impatto vuole dire anche molte altre cose: trasparenza, accountabilty, reputazione, immagine: tutto questo, ben sintetizzato nel "dare evidenza", è la porta di ingresso della comunicazione. Una porta di ingresso che non può essere secondaria. E che ha anche un grande e potenziale valore economico.
Per una comunicazione dell'impatto sociale
La valutazione dell'impatto sociale non può essere scissa dalla sua narrazione: dobbiamo quindi aprire un fronte, anche a livello formativo, nel mondo del terzo settore. Un fronte che cominci a modellare un’efficace strategia di comunicazione che sia parte integrante della scelta di raccontare come cambiano i contesti in cui opera l'azione degli Enti del Terzo Settore. Nel suo Parere sul tema della misurazione dell'impatto sociale, il Cese nel 2013 già esprimeva questo concetto fondamentale: "Il metodo dovrebbe prefiggersi di trovare un equilibrio tra dati qualitativi e quantitativi, nella consapevolezza che la "narrazione" è centrale per misurare il successo".
Centrale è il tema delle risorse (per risorse della comunicazione nel nostro approccio non ci si riferisce solo a quelle economiche, ma a tutti i saperi e i contenuti rilevanti, notiziabili, che troppo spesso lasciamo fermentare nella pancia senza vedere né valorizzare) e della necessità di trovare il "punto di equilibrio" fra dati qualitativi e quantitativi, fra storie e numeri, fra valori e cambiamento. Ma il driver della comunicazione di impatto non può che essere il cambiamento generato nei contesti.
Serve abbandonare un approccio ancora molto diffuso alla comunicazione sociale, la comunicazione del terzo settore, basata su contenuti "statici" (troppo identitari, troppo autoreferenziali, troppo scontati); basata sulla visione della comunicazione come diffusione di prodotti a valle e non come valorizzazione di processi e di sviluppo; basata su una dipendenza ai media tradizionali (nei contesti locali ancora molto importanti e da non sottovalutare, ma la realtà stessa del terzo settore è un media in divenire); basata su una scarsa capacità di coinvolgimento degli attori nell'opera del "dare evidenza", e su una scarsissima autoconsapevolezza del proprio impatto generato.
Un approccio alla comunicazione che si basi su nuovi principi fondamentali (a cui a livello professionale e formativo stiamo lavorando da qualche anno):
1. Impostare la comunicazione come un'urgenza funzionale a tutte le attività nei loro ideazione, progettazione, sviluppo, rendicontazione, valutazione;
2. Assumere la responsabilità della comunicazione a livello politico e strategico;
3. Coinvolgere le risorse umane della comunicazione fin dal principio;
4. Lavorare alla costruzione di competenze diffuse della comunicazione nei contesti associativi e imprenditoriali;
5. Lavorare al rafforzamento della propria identità e immagine online e offline per rendersi "media" e "community" ed aumentare la visibilità nei propri contesti di riferimento;
6. Creare comunità di conoscenza basate su adeguati strumenti di comunicazione e utilizzarli anche come strumenti di partecipazione e discussione;
7. Pianificare la comunicazione nei dettagli per dare ritmo e continuità, senza conferire troppa rigidità alla programmazione;
8. Definire un budget e degli investimenti solo a valle di una valorizzazione complessiva dei contenuti notiziabili e delle alleanze possibili basate sulla reciprocità e la condivisione di obiettivi e interessi;
9. Comunicare come cambiamo i contesti in cui operiamo: cosa c'era prima, cosa è arrivato dopo e in che modo è stato modificato;
10. Lavorare alla definizione di una valutazione di impatto della comunicazione stessa.
In merito a quest'ultimo punto, fondamentale e integrato a tutto il resto, Volterrani e Peruzzi hanno già avanzato ne "La comunicazione sociale. Manuale per le organizzazioni non profit, Laterza, 2016" alcuni possibili indicatori a cui lavorare: comprensione del problema; crescita della consapevolezza e della visibilità; miglioramento delle partnership e delle collaborazioni; costruzione di una rendicontazione collettiva; risultati (anche qualitativi) di raccolta fondi.
L'impatto sociale è e non può che essere quindi anche la sua narrazione. Ed è un potenziale processo di miglioramento della comunicazione sociale.
Quello che prima si presupponeva, si abbozzava, si approssimava, si cercava di enfatizzare, adesso è lì pronto e ben confezionato per essere reso noto al mondo.
Come rendere efficace e notiziabile questa narrazione è una sfida aperta: molti lo stanno già facendo, ma vasta parte degli Enti del Terzo Settore sta comprendendo che assumere e accettare la sfida può portare risultati importanti. Giochiamocela.
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