Mi ritrovo ogni sera sul balcone a guardare fuori. Tutto è sospeso. Il sole che tramonta, le strade quasi vuote, i vicini alle finestre, i raiders che pedalano, qualche tricolore che si gonfia con il vento. Un silenzio così ingombrante squarciato solo dalle sirene delle ambulanze.
Mai come ora abbiamo pianto per così tante persone perse in così poco tempo. Mai come ora abbiamo pensato al valore di quello che facciamo. A cosa serve il nostro lavoro? Quello dei medici, degli infermieri e dei volontari è chiaro. Ma il nostro?
Nel carcere maschile di Milano-Opera, le persone detenute che lavorano nella nostra sartoria Borseggi stanno cucendo mascherine in stoffa per tutti i reclusi che sono più di mille e duecento. Questo maledetto virus obbliga a un distanziamento sociale che è impossibile rispettare in un ambiente ristretto come il carcere. Mai come ora è importante saper scegliere il proprio ruolo. I ragazzi che sono dentro sono detenuti, ma non per questo non hanno cuore e cervello, e in questa emergenza hanno messo a disposizione della loro comunità quello che hanno imparato. E la collaborazione degli agenti della Polizia penitenziaria è stata immediata.
Il rischio che il coronavirus dilaghi negli istituti penitenziari ha riportato in primo piano la necessità di pensare a un carcere a misura d’uomo, riducendo il sovraffollamento ma immaginandolo anche profondamente diverso, non più di esclusiva espiazione, bensì casa e lavoro per migliaia e migliaia di persone. Agenti e detenuti. Insieme. «Ci hanno spedito le mascherine di carta che avevano rifiutato le Regioni, così male equipaggiati rischiamo di esporre i detenuti al contagio». Si legge nella rassegna stampa di Ristretti Orizzonti che riporta le parole del sindacato della Polizia penitenziaria (Uilpa) che sempre di più teme di portare il virus all’interno degli istituti.
«Oggi penso a come avrei potuto agire in una situazione come questa. Sarei salito sui tetti per protesta o mi sarei dedicato agli altri per aiuto e conforto? Non lo so. La paura di vivere in una cella con un virus così micidiale è una guerra senza pari». Nicola conosce molto bene il carcere. È un ex detenuto. «Ho passato tanti anni in carcere, ma questa situazione non è umana». Lui la lezione l’ha imparata. Ora si guadagna da vivere onestamente e in questa emergenza si è offerto volontario per portare la spesa a casa degli anziani e delle famiglie in difficoltà che vivono nei quartieri periferici di Milano.
«Dentro, la tensione è sempre più amplificata, la paura ti sconvolge. Non poter vedere i propri familiari per troppo tempo ti manda fuori di testa. Pensateci un solo istante ora che a tutti è stata rubata la libertà di movimento e negata la condivisione degli affetti. Provate a restringervi in una sola stanza di pochi metri quadrati, senza telefono, con la Tv che racconta di una emergenza apocalittica; siete soli o con così troppi compagni di cella che non riuscite a stare in piedi nello stesso momento». L'emergenza nella quale si trova il Paese è vera e riguarda tutti: anche i dimenticati da tutti. Anche i carcerati.
In momenti così difficili penso spesso a Matteo, il cugino di Federica Dellacasa, il nostro “capo” della cooperativa. Matteo faceva il pompiere. Come Marco e Antonio. Insieme hanno perso la vita lo scorso novembre a Quargnento, nell’Alessandrino. Il significato del loro lavoro era chiaro: salvare le vite degli altri. «Il suo lavoro iniziava quando gli altri scappavano». Matteo era un uomo dalle spalle larghe e l’animo gentile che non si è mai risparmiato per gli altri. Un eroe del quotidiano, ma vittima dell’avidità.
«Uno dei rischi più grandi in vicende del genere, ce lo insegnano Manzoni e forse ancor più Boccaccio, è l’avvelenamento dei rapporti umani». Aveva scritto il preside del Liceo Volta di Milano ai suoi studenti. «Cerchiamo di preservare il bene più prezioso che possediamo, il nostro tessuto sociale, la nostra umanità. Se non riusciremo a farlo la peste avrà vinto davvero». Cuori umani come antidoto al realismo della rassegnazione.
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