Giacchè tutti ne parlano e tanti auspicano che lo smart working diventi uno stile di lavoro stabile e strutturato, mi sembra utile dire la mia…non sarò un influencer, ma non posso tacere.
Già, perché questa pratica, contenuta nella Legge n. 81/2017 – dunque ben prima della pandemia, è stata gestita durante il periodo emergenziale per giustificare l'assenza fisica dal posto di lavoro, senza conseguenza organizzativa e senza alcun controllo…anzi, nella PA ha dato luogo ad una premialità – si legge – per il maggior carico psico fisico imposto dal lavoro in smart working.
Attenzione, non stiamo lontanamente incrociando il “lavoro agile”, perché di sicuro il lavoratore in smart working non era in nessun modo in condizione di agire “come se fosse in ufficio”.
Non vi è dubbio che il ricorso allo smart working ha mostrato i suoi vantaggi, in quella che è la sua genesi deontologica e organizzativa, cioè di un lavoro che può essere svolto con una flessibilità organizzativa e dispone di tutte le componenti tecniche per essere svolto. Importante anche il risvolto ecologico, per un effetto pratico di minori emissioni di CO2 nell'aria.
Certamente, nella logica aziendale, soprattutto se globalizzata, si è compreso che con lo smart working si possono realizzare valide economie di mercato ed altrettanti risultati di carattere scientifico e tecnico.
Ma ciò non può avvenire quando sussistono due condizioni limitanti:
1) la necessità di relazionarsi con le persone
2) un inquadramento contrattuale rigido
A queste condizioni limitanti, si unisce la necessità di un habitat organizzato per distribuire carichi di lavoro, responsabilità e, conseguentemente, verificare i risultati, premiare le eccellenze e punire le inefficienze.
A mio parere, cosi come durante la pandemia sono stati sul campo gli operatori sociali (privati) e sanitari, le forze dell'ordine e pochi altri, anche tutti gli altri lavoratori che hanno compiti di contatto sistematico con le persone si sarebbero dovuti trovare sullo stesso campo.
Ma non è andata così, da questo punto di vista la macchina organizzativa (soprattutto quella pubblica) è andata in tilt, anche gli operatori di front office si sono dileguati e quando sono stati rintracciati, hanno dato risposte inadeguate o nulle a coloro che, viceversa , si sono trovati con l'acqua alla gola ed anche a causa di queste inefficienze, sono affogati.
Se posso essere ancor più provocatorio, che differenza c'è stata fra un percettore di stipendio ed un percettore di reddito di cittadinanza, entrambi a casa e senza alcun impegno?
Per queste ragioni, a me non pare inadeguata o retrograda la posizione del Ministro Brunetta e del Governo sullo smart working nella Pubblica amministrazione, voglio rivedere anche io tutti al lavoro, con l'auspicio che il lavoro sia produttivo…e la vera produttività è nell'offrire risposte adeguate ed efficaci alle persone, soprattutto a coloro che vivono in condizione di maggiore fragilità.
Il ricorso allo smart working e al lavoro agile sperimentiamolo nelle aziende private, laddove la produttività è certa e verificabile ed è più agevole che il lavoratore goda della strumentazione adeguata per offrire il suo contributo all'azienda per cui lavora.
Se poi vogliamo sperimentarlo nel campo del lavoro pubblico, verifichiamo prima che il lavoratore non abbia compiti di contatto con il cittadino e creiamo prima quell'habitat organizzativo che garantisce efficienza anche a distanza.
Bisogna anche capire come collegare la flessibilità del lavoro alla flessibilità del contratto, chi ci perde e chi ci guadagna in un'epoca in cui di flessibilità ce n'è già tanta e non sempre di buona qualità.
Sarà un percorso lungo e faticoso, non basta dire “smart working” perché si realizza il miracolo o l'effetto magico. Occorre una rivoluzione culturale, che agganci temi come impegno e responsabilità e sia misurabile oggettivamente…si può fare, ma non ora
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