Cultura

Greta e la complessità

di Lorenzo Maria Alvaro


Come tutti, nei giorni di Pasqua mi ritrovo con la mia famiglia. E intorno ad un tavolo, seduti a mangiare, si ride, si chiacchiera e si discute, spesso anche animatamente. È forse qui che risiede il dna stesso di famiglia, almeno di quella italiana.

Il dibattito pasquale del 2019, almeno per la mia famiglia, è stata Greta Thunberg e il tema ambientale. Al netto delle divagazioni il cuore della diatriba famigliare è stata tra due posizioni che potremmo riassumere con pro e contro il messaggio della bambina svedese. Più specificatamente tra chi ritiene importante il ruolo di Greta perché “almeno di questi temi ora se ne parla” e chi invece ritiene che un messaggio fatto di slogan sia semplicistico, un po’ ideologico e che non tenga conto della complessità.

Inutile sottolineare che ero io ad esprimere quest’ultima posizione. Non avevo fino a quel momento avuto tempo per analizzare e mettere insieme i pensieri sul tema. Mi ero fermato ad una sommaria analisi tra me e me. Quella discussone familiare mi ha però spronato a ricostruire le impressioni e gli spunti in maniera più ordinata.

La prima cosa che mi è venuta in mente leggendo gli interventi di Greta è stato un discorso di Olof Palme che avevo pubblicato su Vita in occasione dell’anniversario della morte. Nel 1984 il primo ministro svedese socialdemocratico che sarebbe stato assassinato due anni dopo scriveva: «In Europa il socialismo democratico, come cita Willy Brandt dal programma di Bad Godesberg “ha le sue radici nell’etica cristiana, nell’umanesimo e nella filosofia classica”. In Svezia questa tradizione è profondamente ancorata. Ma l’uomo vive in primo luogo i problemi di ogni giorno. Una idea astratta da sola non è sufficiente per un impegno. Si deve chiarire il nesso tra idee e problemi pratici. Si deve indicare come sia possibile risolverli. Un paese povero in via di sviluppo aspira alla sua autonomia dopo anni di dominazione coloniale. Qual è la ragione che può guadagnare il popolo alla causa della indipendenza nazionale? La possibilità concreta di costruire la società e liberarsi dalla povertà. Non è sufficiente dire: dobbiamo trasformare il sistema. Ogni sforzo in questa direzione deve collegarsi e fondarsi sulla soluzione di problemi concreti dei cittadini, sul loro bisogno di sicurezza, progresso e sviluppo. Il che si ricollega ai nostri sforzi di avere una visione complessiva dei problemi».

Ed è proprio questa la prima questione che mi ha sin da subito creato difficoltà con il messaggio di Greta: non c’è alcuna vera soluzione, nessun cenno alla complessità.

A spiegarlo bene ci ha pensato Enrico Mariutti, ricercatore e analista in ambito economico ed energetico, founder della piattaforma di microconsulenza Getconsulting e membro del consiglio direttivo dell’Istituto Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) con un contributo pubblicato su Il Sole 24 Ore dal titolo Perché Greta Thunberg è una foglia di fico e l’ideologia ha la meglio sulla realtà”. Sarebbe inutile riassumere il contenuto dell’articolo la cui lettura però è molto interessante.

Mariutti porta a galla non solo tutte le contraddizioni del trattare il tema ambientale con tutta questa leggerezza ma anche un tema ancora più importante: «inquadrato con precisione il fenomeno Greta Thunberg trascende la lotta al cambiamento climatico e si inserisce perfettamente nel contesto sociopolitico del momento. Si trasforma in un ennesimo fattore di polarizzazione, nell’ennesima narrativa emozionale destinata a impastare sentimenti ingenui ma genuini con cinismo e ipocrisia».

Greta cioè è una voce e una forza molto simile a quella del populismo che stiamo conoscendo in tutto il mondo, dai 5Stelle italiani a Trump, passando per i Gilet Gialli francesi fino ad arrivare al neo presidente ucraino ed ex comico Zelensky. Un contesto appunto in cui la semplificazione e lo slogan diventano non la sintesi di un messaggio ma il messaggio stesso in cui volontariamente e a tratti orgogliosamente si afferma il rifiuto alla complessità e all’approfondimento.

Ed è questo il cuore del problema a mio avviso: non c’è più nessuna educazione alla complessità. Come scrive Giuliano Ferrara su Il Foglio del 19 aprile riportando il pensiero del filosofo francese Marcel Gauchet, «l'ecologia è diventata un emblema del più tradizionale disprezzo sociale, vecchia inclinazione Ancien régime di una società francese che ha conosciuto i fasti orgogliosi della nobiltà e la risposta che dura nei secoli del sanculottismo, la cui forza di minoranza e radicalmente violenta è sempre stata il sostegno diffidente e aspro dell'opinione pubblica, spesso maggioritaria. La retorica ecologista aveva appena fatto un grande balzo in avanti, nutrita com'era della sovrana ideologia di ceti dirigenti che volevano illustrarsi come salvatori del pianeta, e anche su quello puntavano per vestire di panni ardenti e colorati la globalizzazione di mercato e il progresso tecnologico dei centri urbani ben elettrificati, quando è stata presa d'incontro da popoli e regioni e situazioni sociali che ne hanno denunciato, appunto, il carattere altezzoso, nell'espressione di un nuovo disprezzo sociale. Aerei e cargo della globalizzazione inquinano quaranta volte di più delle automobili e dei "dieselisti di base", dice la trama dell'osservatore, e sono tassati sette volte di meno. Un mondo di sopra che si muove freneticamente e consuma energia ad altezze stellari impone al mondo di sotto, con i divieti di velocità e la tax carbone, e una forte colpevolizzazione propagandistica che punta alla rete del trasporto casa-lavoro, una dimensione sociale di emarginazione e di spossessamento politico. Pagate di più il carburante o cambiate l'auto, e accettate che per l'energia le grandi città metropolitane siano il faro del consumo, della ristrutturazione rinnovabile, degli investimenti tecnologici, e i piccoli e medi centri si rivelino delle discariche o giù di lì. E non osate disturbare i nostri loisirs, lasciate che orsi e lupi battano le aree selvagge e forestali per il bene della nostra idea di natura incontaminata e delle nostre passeggiate ecologiche nella terra da salvare. La tax carbone e il divieto degli ottanta all'ora, mentre nel mondo e in Trumplandia si deregolamenta tutto e si irride il programma green dei democratici neosocialisti, sono state bandiere di insurrezione contro l'impero delle norme, appunto, e della centralizzazione come globalizzazione ecologista».

In ultima analisi continuo a pensare, come lo pensavo a tavola, che seppur possa essere valida l’idea per cui è un bene parlare di temi importanti, è ancora più essenziale come se ne parla. E fuggire dalla complessità per prendere posto in questa o quella fazione in lotta non serva a nulla. Tanto meno ai giovani che, giustamente, vogliono dire la loro. Perché la lezione più importante non è forse imparare come consumare meno ma come pensare meglio. Una volta questo si insegnava anche con le filastrocche e con le canzoni, sin dall’infanzia. Pensando alla complessità, anche semplificata per i più giovani, e al tema ambientale mi è venuto in mente Sergio Endrigo.

Un genio che con una canzoncina per bimbi spiegava loro tutto in modo semplicissimo. Per fare un tavolo ci vuole il legno, per fare il legno ci vuole l’albero e per fare l’albero servono un seme e quindi un frutto e un fiore. E noi abbiamo bisogno sia del tavolo, che dell’albero, che del frutto, del seme e del fiore. E dentro questa complessità abbiamo bisogno che tutte queste cose stiano insieme. Dovremmo tornare forse a quel modo semplice ma complesso di guardare le cose nel loro insieme.

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