“La trap fa schifo”, “La trap non è musica”. E poi insulti a Rockol per una recensione ad un disco di Sfera Ebbasta, dileggio per il producer Charlie Charles che farebbe “solo rumore”.
(Se non sapete cosa sia la trap, anche se dubito non l’abbiate ascoltata senza saperlo, vi rimando a Wikipedia)
Il copione è più o meno sempre lo stesso: qualcuno posta qualcosa che ha a che vedere con il genere, qualcun altro decide di sottolineare come sia una schifezza e qualcun altro decide di controbattere. A questo punto partono interminabili disquisizioni dotte (almeno questa sarebbe l’intenzione ma spesso gli strafalcioni linguistici e grammaticali rivelano una sostanza molto meno alta), in cui i contendenti cercano di dimostrare come la propria tesi sia la più giusta, con una buona dose di autocelebrazione ed egopatia. D’altra parte sono i social, bellezza.
Il profilo dei litigiosi contendenti è vario. Possiamo però fare un identikit di massima: chi ritiene Sfera Ebbasta e i suoi fratelli dei non musicisti di solito è una persona di mezza età, cita gruppi anni ’70 come unico punto di riferimento e metro di paragone (cita cioè i gruppi di quando lui era ragazzino). Dall’altra duellano giovani o pseudo giovani cavalcando il mantra del “siete fossili fermi nel tempo”. A corredo tutta una serie di “i Rolling Stone si che erano un gruppo”, “vatti a sentire Tizio, Caio e Sempronio, e vediamo se non ci sono giovani di talento”. Questo quando non ci si trova di fronte a veri e propri volumi tecnici di para analisi musicale applicata a dischi e autori.
Si dice che tra i due litiganti il terzo gode. Io non so se godo ma sicuramente mi tengo a distanza di sicurezza da entrambi. Il motivo è semplice: entrambi esprimono quella sicurezza e quell’assolutismo che ha sempre solo lo stesso esito: devono dirti loro cosa ascoltare. Loro, che ne sanno più di te, ti guardano dall’alto al basso e dopo aver espresso un arguto e tagliente commento, con sorriso di compatimento, ti diranno cosa dovresti ascoltare.
E invece no. Io ascolto e voglio ascoltare quello che mi pare.
A me la trap piace, almeno nella versione Charlie Charles più Ghali. E Ghali mi fa proprio impazzire. Perché? Fatti miei. Mi piacciono i testi, mi piace lo stile, mi piace il fatto che rappi col sorriso e mi piace il suono.
Sono scemo? I nostri amici da battaglia social dovrebbero sapere che mentre si scannano per stabilire, non tanto qualcosa che abbia a che fare con la musica, ma chi di loro è più intelligente e influente, insieme a me 4.2 milioni di persone, per lo più ragazzini, hanno guardato il video dell’ultimo singolo di Ghali (Cara Italia) in 24 ore (ad ora le visualizzazioni sono oltre i 14 milioni).
Cosa significa? Che mentre loro parlano e si parlano addosso il mondo cambia. Sono numeri che nessuno ha mai fatto (né Vasco, né Jovanotti, né la Pausini).
Ora io credo che la musica sia, più che di questi dottissimi scassamaroni, della contemporaneità. La musica è un fatto che avviene in quel dato momento e ha un senso soprattutto in relazione al contesto sociale e politico. Per quei ragazzini ascoltare i “Rolling Stone” di turno (ma potrebbero essere i Beatles, De Andrè o Mozart) semplicemente può non avere senso. Perché parlano una lingua che non gli appartiene e si riferiscono a questioni che non li interessano. Ghali invece parla a loro, di loro e per loro. Ogni generazione ha avuto i suoi musicisti e dei dottissimi pedanti scassamaroni che si scannavano per stabilire se fosse vera musica o meno.
Io preferisco ascoltare Ghali, vivere la contemporaneità e starmene sereno, come sempre.
Tanto nell’era social una cosa bvuona c'è: non è più vero che verba volant e scripta manent. Tutto ciò che scrivete è inutile, non lo legge nessuno e se lo porta via il vento, pardòn lo scorrere del wall di Facebook.
P.s. Alla pesantezza bacchettona è sempre preferibile un po' di ironia, meglio ancora, di autoironia…
17 centesimi al giorno sono troppi?
Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.