Volontariato
Quando i nodi vengono al pettine. La riapertura di scuole e università tra valori e disvalori costituzionali
Il 2 giugno ricorda non solo la nascita della Repubblica, ma anche l’elezione dell’Assemblea che scrisse la Costituzione italiana, la Carta fondante del nuovo Stato repubblicano, per la quale i Costituenti scelsero, come diceva Tullio De Mauro, “le parole più trasparenti”, affinché – in un un Paese appena uscito dalla guerra, che contava un numero elevato di analfabeti – il loro significato fosse comprensibile da tutti, senza alcuna ambiguità. Tra i dodici “principi fondamentali”, che definiscono la geografia dei valori e dei disvalori sui quali si fonda la Repubblica, voglio citare l’articolo 9 che “promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica” e l’artico 11 che “ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Principi chiari, precisi e incisivi nel loro significato: un valore da promuovere, un disvalore da ripudiare. E tuttavia i momenti di crisi, come quello che stiamo attraversando, fanno esplodere le contraddizioni. Nei momenti di crisi i nodi irrisolti vengono al pettine.
Per esempio, mentre in tutta Europa le scuole, seguendo adeguate misure di sicurezza, hanno già riaperto o stanno riaprendo in questi giorni le porte agli studenti, nella relazione consegnata finalmente al governo italiano dal “comitato tecnico scientifico” si ribadisce che – anche in base alla valutazione sulla “disponibilità di persone, infrastrutture, risorse e capacità di riprendere le funzioni”, come indicato dall’Unesco – da noi riapriranno a settembre, in modalità mista tra lezioni in presenza e lezioni on line. Questo tema della riapertura delle scuole rimandata a settembre ha a che fare con una contraddizione fondamentale: a dispetto di quanto promosso dalla Costituzione, secondo i dati Eurostat, il nostro Paese è ultimo in Europa per investimenti pubblici sull’istruzione (e proprio su questo sono avvenute le dimenticate dimissioni del ministro Fioramonti dello scorso dicembre), ma è tra i primi quattro per spese militari e tra i primi al mondo per export di armamenti. Non a caso mentre le scuole sono chiuse fin da marzo (ed in alcune regioni già da febbraio) ed i ragazzi sono costretti alla didattica a distanza – nella quale le scuole sono precipitate del tutto impreparate, con conseguente amplificazione delle distinzioni di appartenenza sociale nelle opportunità formative – in Italia le fabbriche di armi non si sono mai fermate.
Non va meglio per le università che riapriranno nel prossimo anno accademico e, sostanzialmente, solo on line. Tema che ha scatenato quella che Umberto Eco definirebbe una diatriba tra “apocalittici e integrati”, con il coinvolgimento di filosofi ed accademici, rispetto all’uso esclusivo della dimensione digitale nell’insegnamento che ha il punto debole di non tenere conto dell’ulteriore contraddizione di un Paese che investe per l’Università appena lo 0,3% del prodotto interno lordo, a fronte dell’1,43% in spese militari. Con una curva tendente permanentemente al basso nel primo caso ed all’alto nel secondo. Per cui la domanda vera da porsi non è che futuro avrà l’Università in questo Paese, ma che futuro potrà avere un Paese che spende 5,5 miliardi di euro per la formazione e la ricerca e 26,3 miliardi all’anno per eserciti e armamenti. Che ha il più basso numero di laureati, ma in compenso avrà il più alto numero di cacciabombardieri F35 in Europa. Nonostante il ripudio costituzionale della guerra.
Allora per uscire davvero dalla crisi e passare non alla “fase due” ma ad una necessaria “fase nuova” bisogna rimettere in fila l’ordine delle priorità e dei principi fondamentali, tra valori e disvalori. Basterebbe seguire, finalmente, la bussola della Costituzione
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