Non profit

Leopoli, andata + ritorno

di Paolo Dell'Oca

“La guerra ha già creato una divisione: c’è la mia vita prima dell'inizio della guerra e la mia vita dopo l'inizio della guerra”.

P. Ihor Boyko

Lunedì 14 marzo alle 14:33 ad Arché abbiamo saputo del bisogno ben circostanziato di p. Ihor Boyko, Rettore del Seminario Teologico dello Spirito Santo di Leopoli, di ricevere cibo per le famiglie con bambini, gli anziani e i bambini di un orfanotrofio accolti nel seminario, nell’Università adiacente al seminario e nel seminario minore (a 15 chilometri dalla città).

Mercoledì 16 marzo alle 14:33 due furgoni, uno di Arché, l’altro prestato da Chiara e Andrea dello studio di architettura 23bassi, erano in viaggio per Leopoli carichi degli alimenti raccolti nelle 30 ore precedenti alla partenza dalla reattiva generosità di moltissimi, moltissimi, amici.

Nessun eroismo, intendiamoci. E molte disponibilità ad accompagnarci in questa spedizione, pure con un preavviso ridicolo. Partiamo in 5: p. Giuseppe, Jacopo, Marco, Thomas e io. Il desiderio di dare una piccolissima mano alle vittime di un conflitto che pare uscito dai libri di storia, una guerra convenzionale in Europa nel 2022, dove si mischiano i cavalli di frisia e la propaganda su Tik Tok, i droni turchi e i carri armati.

236mila cittadini (e cittadine) ucraini lavorano in Italia, spesso come caregiver di anziani italiani, e vivono divisi dalle loro famiglie rimaste in patria. Famiglie che magari abitano nella casa acquistata grazie ai soldi delle rimesse. Famiglie che magari abitano nella casa che in queste settimane stanno abbandonando con la morte nel cuore.

Ci muoviamo con la luna di Roma alle spalle, piena e argentea; è più luminosa di quella di Vienna, che splende più di quella di Brno, d’avorio. La luna di Cracovia è offuscata, e i raggi di quella di Kiev viaggiano senza passaporto. Come uno di noi cinque, che dovrà fermarsi alla dogana di Budomierz, ad attenderci all’uscita dall’Ucraina.

Questa è una guerra raggiungibile dall’Italia in meno di un giorno, come quella balcanica: la strada si allunga come una serpe per l’Europa a mordere il Paese ucraino che in questi giorni sta vivendo l’orrore. L’orrore. Comune a quello di ogni maledetta guerra. E unico.

Noi quattro lo percepiamo (o lo proiettiamo?) sulla terra che calpestiamo oltre confine, entrandovi nel 21° giorno di guerra. Gli alberi sotto cui passiamo sono infestati dal vischio, dalla riconoscibile conformazione sferica, che conferiscono un’aria lunare al paesaggio. Nessuno conosce Leopoli; i doganieri ci guardano interdetti: solo noi italiani la chiamiamo così, il suo nome è Lviv. Le bandiere che sventolano in quella landa di Ucraina tra la dogana e il confine sono rosse e nere, e non gialle e blu. “Rosso come il sangue, nero come la terra”, mi verrà spiegato: appartengono all’Esercito Insurrezionale Ucraino, ala paramilitare dell’OUN, l’Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini nata nel 1929 dalla fusione di diversi gruppi nazionalisti ucraini.

Nuovi codici richiedono dei cifrari per decrittare quello che vediamo. La sospensione dal giudizio mi riesce improba quando leggiamo di episodi di discriminazione alle frontiere ucraine, che in Italia assumono la forma di carità selettiva, come corsi d'italiano per i profughi ucraini che scappano dalla guerra, non per quegli altri.

Al nostro ingresso Lviv appare irrequieta e ordinata, viva. I ragazzi giocano a ping pong all’aperto, i mezzi pubblici sono affollati e un coro si è trovato in piazza a cantare. Una città da 800mila abitanti che accoglie 400mila persone di passaggio per l’ultima tappa prima di lasciare il Paese ad ovest, verso la Polonia, verso l’Unione Europea.


Ma i volti delle beneficiarie dei pacchi alimentari che abbiamo trasportato c’interpellano. Che ne sappiamo noi del treno notturno che parte da Kiev a luci spente per non essere individuabile dai droni? Che ne sappiamo noi degli agricoltori che lasciano la propria terra perché i russi non gli consentono di seminarla? Che ne sappiamo noi degli anziani che non possono più ritirare la pensione perché gli autisti dei furgoni portavalori sono stati meticolosamente eliminati? Che ne sappiamo noi delle sirene antimissili che ti catapultano in cantina nel cuore della notte?

Che ne sappiamo noi del saluto che i padri ucraini danno ai figli?

Come restituire lo sguardo di queste donne che condividono lo strazio con i loro figli sulle ginocchia? Marco ci prova, nel suo vestito migliore, quello del Pimpa: il claun di guerra è il più attrezzato per distrarre i bambini e sciogliere qualche adulto e anziano. Ma non tutte le donne ridono, e i ragazzi più grandi non si fanno vedere nella sala in cui allestiamo l’incontro.

P. Ihor s’informa se in Italia le manifestazioni per la pace hanno successo, se vi partecipano anche italiani oltre che ucraini. Quanto la guerra coinvolge i cittadini ucraini e quanto quelli europei? Quanto riguarda i cittadini russi e quanto quelli extraeuropei? Dopo una manciata di ore ripartiamo, più leggeri di una persona (il Pimpa si ferma qualche giorno nel seminario), quella stessa notte tre missili colpiranno una fabbrica di aerei di Lviv.

Una delle etimologie del termine inglese travel (viaggio) risiede nel latino volgare tripalium, uno strumento di tortura: il viaggio è tale se taglia, se incide. Cosa significa credere nella pace oggi? E se in ognuno di noi c’è la guerra, come spiega p. Giuseppe citando p. Turoldo (“Chissà cosa nascondiamo nel sangue?”), come possiamo lavorare per arginarla? In noi e fuori di noi. E ancora, come informarci al meglio?

Rientriamo in Italia venerdì pomeriggio, confusi dalla stanchezza e dalle notizie che si affacciano ai nostri smartphone, carichi di dubbi che rimbalzano contro le stolide, ma invidiabili, certezze di molti. Noi ne portiamo una, che il nostro impegno per la pace non finirà qui.

“C’è un giorno che non dimenticherò mai, ed è il primo di guerra. Voglio che ci sia un altro giorno da non dimenticare, il primo giorno di pace. Sarà un giorno bellissimo”.

P. Ihor Boyko

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