Sono ancora qui, sempre al fronte, armata di libri, libri e ancora libri, per provare a spiegare a mio figlio che leggere è bello. Più bello di una gomitata sui denti, di un gancio sul naso, di una dissenteria fulminante, di un colpo di calore nel deserto, di un etto di sabbia nelle mutande. Cose ovvie, è naturale. Non così ovvie per mio figlio, evidentemente, che piuttosto che prendere un libro in mano di sua sponte partirebbe per una missione su Marte senza nemmeno indossare la tuta da astronauta.
Così qualche giorno fa ho pilotato l’acquisto di un libro che parla di informatica e di videogame. Non mi sembrava male e così, forte di una copertina ammiccante, gliel’ho sottoposto. Non mi ha detto di no, non mi ha urlato dietro improperi di nessun tipo, non mi ha nemmeno invitato a ripassare il contenuto del cartello che è appeso sulla porta della sua camera, qui al mare, dove campeggia un “proprietà privata”. Insomma, ammetto che ho pensato che forse questa volta ce l’avrei fatta, a fargli leggere volentieri un libro senza spargimento di sangue e senza che nessuno si facesse del male.
Nel mentre mi sono messa a scrivere. Mezzora dopo, ho provato a drizzare un orecchio. Niente. Silenzio tombale. Stavo quasi per commuovermi, quando ho deciso (mannaggiaammme!) di alzarmi e andare a vedere cosa stesse capitando in camera sua. L’ho trovato che dormiva. Mancava solo la bolla al naso, proprio come nei cartoni animati.
Mamma: Stai dormendo?
Figlio: No!
Mamma: Sì, stavi dormendo!
Figlio: No, non dormivo!
Mamma: Ma avevi gli occhi chiusi, non sono mica cieca!
Figlio: Non avevo gli occhi chiusi!
Mamma: Sì che erano chiusi. Li ho visti benissimo!
Figlio: Oh, ora sei pure diventata razzista? Non li avevo chiusi! Non lo vedi che ho gli occhi a mandorla? Sembrano chiusi, ma sono aperti!
Poi ha sfoderato un sorriso dei suoi, mi ha dato un bacio ed è andato a prendersi un pacchetto di patatine alla paprika.
Ma non mi arrendo, ovviamente. Sappilo, adolescente del mio cuore.
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