Che il mare sia “un antico idioma che non riesco a decifrare”, lo potevamo intuire, ma lo ha scritto così, diretto e asciutto, Borges. Un idioma, cioè una lingua peculiare di una nazione, una lingua alternativa le cui origini sfumano remote nel tempo e che ancora ci risulta incom-prensibile. Cioè letteralmente non si può “prendere”, trattenere. Per quanto insista ad abitare i nostri pensieri, i desideri, la nostra “vacanza”, questo idioma guizza via, sempre. Anche se poi torna infinite volte a materializzarsi nelle righe scritte di chi non resiste alla sua forza attrattiva e lo usa per dire cose di noi. Traduce noi a noi stessi.
Lucio Dalla, per esempio, la sa parlare bene questa lingua del mare, la usa quando vuole cantare la profondità che difende ciò che è libero, libero come un pensiero scomodo che diventa un pesce: “Che il pensiero dà fastidio/Anche se chi pensa/È muto come un pesce/E come pesce è difficile da bloccare/Perché lo protegge il mare/Com'è profondo il mare/Non lo puoi bloccare/Non lo puoi recintare”.
È libero, sfuggente e profondo quasi come una donna. E infatti il vecchio di Hemingway lo pensava al femminile: “Pensava sempre al mare come a la mar… A volte coloro che l’amano ne parlano male, ma sempre come se parlassero di una donna”.
Per la sua immane aspirazione all’infinito, il mare è la lingua degli interrogativi. Come quelli che trascrive Pascoli che si affaccia alla finestra, vede il mare, ci scorge un ponte d’argento e si chiede: “Per chi dunque sei fatto e dove meni?”
Pensava sempre al mare come a la mar… A volte coloro che l’amano ne parlano male, ma sempre come se parlassero di una donna
E. Hemingway
Ma è anche una lingua che custodisce qualcosa dell’infanzia, come sembra quella di De Amicis, nella sua dichiarazione d’amore bambino: “T’amo… Amo i tuoi flutti enormi e i tuoi ruggiti; Ma più assai de’ ruggiti il tuo sussurro”. O di Penna, al quale bastano poche sillabe per sfiorare l’essenziale del mare: “Nel cuore è quasi un urlo/di gioia. E tutto è calmo”.
Perché forse ha effetto ringiovanente questo idioma , come un lifting sulle rughe della mente che così si rilassa, abbandona l’ansia, e riconosce i miracoli che ci circondano. Accade a Whitman: “Il mare è per me un miracolo senza fine, i pesci che nuotano – gli scogli – il moto delle onde – le navi che portano gli uomini, quali i miracoli più strani di questi?”.
T’amo… Amo i tuoi flutti enormi e i tuoi ruggiti; Ma più assai de’ ruggiti il tuo sussurro
E. De Amicis
Pure si offre come lingua per i più tribolati. Quelli che si specchiano nel mare e ci ritrovano il loro riflesso, come Baudelaire, che usa il punto esclamativo quando scrive “Uomo libero, amerai sempre il mare!”. Nei flutti riesce a scorrere le pagine della sua anima, che altrimenti restano invisibili agli occhi. Affonda nella distesa indomita e selvaggia (aggettivi maledetti) e si chiede: ma che cosa hanno in comune l’uomo, la donna e il mare? Che sono parimenti tenebrosi e discreti, si risponde il poeta: “Uomo, nulla ha mai sondato il fondo dei tuoi abissi/O mare, nulla conosce le tue intime ricchezze”.
Sono ugualmente depositari di segreti inviolati. Soprattutto di uno, il più spaventoso e sconfinato di tutti: l’eternità. Parola che quasi non sappiamo più che suono abbia. Alle anime sentinelle, come le chiama lui, Rimbaud annuncia: “È ritrovata./Che cosa? L’eternità./È il mare mischiato/col sole”.
Ma su tutti veglia lei, la maestra dell’idioma del mare, Emily Dickinson, che apre sipari, e poi ancora altri. E noi riposiamo un momento con lei, sulla riva, a inspirare totalità: “Come se il mare separandosi/ svelasse un altro mare,/questo un altro, ed i tre/solo il presagio fossero/d’un infinito di mari … questo è l’eternità”.
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