Talvolta mi fermo e.
E m’interrogo sul denaro; lo faccio da ricco abitante di questo pianeta. Mi chiedo quanto più povero sarei disposto a diventare, se e quanto i soldi condizionino la mia felicità e la mia aspettativa di felicità. Sui valori mi trovo spesso d’accordo con le persone che mi circondano, e quando questi valori vanno a toccare la dimensione economica molti di noi s’intiepidiscono.
Sì, scusa, adesso devo proprio andare. Grazie, eh, poi riprendiamo il discorso, ricordati dov'eravamo rimasti.
Come se i soldi concernessero la vita reale, mentre i valori no: questi secondi vanno a comporre un orizzonte di riferimento da tenere di sfondo, troppo nobile per raggiungerlo ma che ci fa venire bene nei selfie. Nelle rappresentazioni che proiettiamo di noi stessi. O che condividiamo sui social.
Gli esempi sono i soliti: costa di più riparare un elettrodomestico, uno zaino, un paio di scarpe che comprarli nuovi? Forse sì, ma riparandoli non creeremmo immondizia: valori contro denaro. Oppure al contrario: l'acquisto gratuito come valore in sè, così veniamo abituati a consumi superflui; se è gratis prendilo, se è scontato guadagni. La sporca faccenda dei bisogni indotti.
- Questa settimana per ogni dessert ordinato ce n'è un altro in regalo.
- Splendido.
- Cosa prendi?
- Niente, grazie.
- Ma devi prenderlo, è in regalo.
- Non mi piacciono i dessert, non li voglio.
- Ma io devo dartelo.
- In che senso?
- È l'offerta della settimana.
- L'ho capito.
- Quindi devo dartelo.
( da City, di A. Baricco)
Quanto siamo disposti a rinunciare per i nostri valori? Crediamo nei diritti ambientali? Quanto meno possiamo inquinare? Voli aerei, condizionatore, automobile, stoviglie di plastica in cui mangiare carne.
Siamo disposti a non volare più? Siamo disposti a sopportare più caldo? Siamo disposti ad impiegare più tempo per gli spostamenti? Siamo disposti a cambiare la nostra dieta? E, soprattutto, se lo facessimo ma non servisse a nulla?
Che smacco, sarebbe, eh? Per esempio Meehan Crist, su The New York Times, spiega che i trasporti aerei sono responsabili di appena il 2,5 % delle emissioni globali. Non è poco ma.
Nel numero di Internazionale 1372, Jaap Tielbeke scrive come “nell’antropocene, l’era dell’essere umano, anche l’individuo più volenteroso è inerme. Almeno finché si concentra sul proprio stile di vita. Se guardiamo solo gli altri o noi stessi, le cause strutturali continueranno a sfuggirci e i veri colpevoli a farla franca. Mentre noi ci chiediamo quale gelato sia il più sostenibile e facciamo la spesa al supermercato biologico, le aziende petrolifere continuano ad agire indisturbate”.
Un pianeta migliore non comincia da noi stessi, ma da un impegno collettivo. Non arrivo a considerare controproducente l’impegno individuale, tutt’altro: l’impegno collettivo nasce da quello individuale, e l’impegno individuale considerato virtuoso fa cultura, può ispirare e venire emulato, sono gli individui che votano. Ma l’impegno individuale non è sufficiente.
A livello collettivo, passando dalle vie della politica istituzionale, rilevo che quando, in emergenza sanitaria, Graziano Delrio per il Partito Democratico ha proposto un contributo di solidarietà (una reddimoniale progressiva per redditi sopra agli 80k) è stato coperto di strali da ogni parte, nonostante peraltro nel 2011 il Governo Berlusconi avesse proposto qualcosa di molto simile.
D’altronde decrescita felice e sobrietà paiono espressioni bruciate per i più, da cui ci si ritrae inorriditi, anche quando sappiamo che le generazioni giovani saranno meno benestanti dei nostri genitori. Lo sappiamo, ma accorgersi noi stessi di esserlo è un’altra cosa. Come dire, meglio essere poveri coi soldi degli altri. La crisi più grave non credo sia quella economica: l’individualismo che ci attanaglia c’impedisce di vedere come se la passano gli altri, e come sta l’ambiente.
Sul piano ambientale Danilo Selvaggi, Direttore Generale della LIPU e relatore all’Arché Live del 3 ottobre (olè), individua tre crisi: “una crisi consumistica (il consumo di risorse oltre i limiti tollerabili per il pianeta), una crisi naturalistica (la distruzione delle altre forme di vita), una crisi climatica (il surriscaldamento della Terra con tutte le conseguenze del caso)”.
Marshall Burke, del dipartimento di scienze della Terra dell’università di Stanford, illustra come in Cina siano bastati due mesi di riduzione dell’inquinamento per salvare le vite di 4mila bambini sotto i 5 anni e di 73mila adulti sopra i 70 anni. Per dire.
Serve speranza che la situazione è disperata: ben venga quindi il green deal europeo, così come chi punta tutto sulla conversione ecologica; e allora van festeggiate le vittorie dei Verdi in Europa: dopo le recenti elezioni francesi, i neo sindaci verdi (come Grégory Doucet a Lione) si sono immediatamente schierati contro la TAV, che in Italia rimane invece argomento sottotraccia se non per una manciata di facinorosi, gente che, oddio, prova ad agire localmente e a pensare globalmente.
E il Terzo Settore? Beh, quelli che non temono di inimicarsi stakeholder troppo interessati al social washing (o al green washing) possono unirsi per promuovere azioni di disobbedienza civile: boicottaggi mirati, sit-in, manifestazioni, promozione culturale e advocacy.
Quando a pensieri&parole non seguono opere&manomissioni ci si lascia integrare in una funzione di pacificazione, di non-disturbo. E i propri convegni si riducono a riti consolatori, “pratiche appartate e inoffensive che il potere tollera con occhio benevolo o con indifferenza, tanto poco possono infastidirlo”, per dirla con Goffredo Fofi.
“Protestare non basta: bisogna affrontare i responsabili” convengono i movimenti ambientalisti come Extinction Rebellion, la cui prima richiesta è che i governi dichiarino l’emergenza ecologica e climatica. Apparentemente è una sfida tra chi non ha molto potere e chi è molto potente, una sfida che ha il sapore della rivoluzione, deve averlo: ne va della vita sul nostro pianeta. E la domanda che in molti si pongono è quella di sempre: la protesta più efficace è violenta o nonviolenta?
Anche mortificando la riflessione ad un discorso di efficacia (cioè relativo alle possibilità di raggiungimento degli obiettivi che ci si pone), danno una risposta argomentata le ricercatrici Erica Chenoweth e Maria J. Stephan dopo aver analizzato più di 300 conflitti tra il 1900 e il 2006. Concludono, nel saggio “Perché la resistenza civile funziona”, che i cittadini son più portati ad aggregarsi a proteste nonviolente. E più una protesta è attrattiva, più è capace di fare pressione sulle autorità. Genova insegna che quando l'autorità brutalizza persone pacifiche ed inermi poi ci impiega un po’ di più ad uscirne pulita. Non che non ci riesca, eh.
Forse per l’essere umano è già troppo tardi, è stato bello, non facciamo che poi non ci si sente più, forse no. Ma se non ci sbattiamo collettivamente e individualmente, mettendo in discussione il nostro stile di vita e agendo con gli altri per produrre cambiamento, diventeremo noi stessi, con il nostro portafogli gonfio di bei valori, cani da guardia di un potere che produce ingiustizia. La stessa ingiustizia che provoca situazioni di disagio in cui come Terzo Settore interveniamo.
Siamo già tutti comunisti mentre collaboriamo a un progetto comune, siamo tutti anarchici quando proviamo a risolvere un problema senza ricorrere a polizia o avvocati, o siamo rivoluzionari quando ci impegniamo in qualcosa di genuinamente nuovo
D. Graeber
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