Volontariato

La Fragilità non è anarchica

di Dino Barbarossa

Uno degli effetti più rilevanti della pandemia che sta colpendo il mondo, è la “scoperta” di tante e nuove Fragilità dell’ecosistema e di tante fragilità umane che prima erano sconosciute o sottovalutate.

Credo si possano evidenziare due tipi di fragilità: quelle sistemiche e quelle ombelicali.

Le prime sono strettamente correlate alle grandi “pandemie” globali del nostro tempo: i cambiamenti climatici, le migrazioni, la segregazione degli anziani e dei disabili,…

Le seconde sono invece legate a condizioni personali e spesso sono percepite da chi le vive secondo una scala di gravità soggettiva e non oggettiva.

Spesso la percezione di queste ultime supera di gran lunga la percezione delle prime, al punto da far pensare che le “grandi pandemie globali” non ci riguardino, se non per quei lievi sussulti d’animo che può darci il vedere un bimbo che muore in mare, l’esplosione al porto di Beirut, un terrorista che compie una strage o poliziotti che uccidono un uomo inerme. La nostra fragilità ombelicale frutto del benessere ci fa pensare che mentre i tre quarti del mondo vive di stenti e muore di fame, noi possiamo permetterci il lusso di architettare formule artefatte per garantirci le conquiste sociali ed economiche che ci siamo “guadagnati”.

In qualche modo, questo sistema tutela chi è già tutelato ed emargina chi è già emarginato, senza che si crei nessuna solidarietà ed osmosi fra le parti e mettendo da parte il concetto di eguaglianza che andrebbe applicato all’intera umanità.

Ancora una volta, pochi giorni fa, Papa Francesco ha ribadito che “per uscire migliori da questa crisi bisogna farlo insieme, risvegliando la solidarietà, che indica molto di più di qualche atto sporadico di generosità: richiede “una nuova mentalità che pensi in termini di comunità”, “di priorità della vita di tutti rispetto all’appropriazione dei beni da parte di alcuni”, si tratta di giustizia. La diversità solidale possiede anche gli anticorpi per guarire strutture e processi sociali che sono degenerati in sistemi di ingiustizia, in sistemi di oppressione. Quindi, la solidarietà oggi è la strada da percorrere verso un mondo post-pandemia, verso la guarigione delle nostre malattie interpersonali e sociali.

Questo, dunque, è il momento di stabilire se siamo disposti a rinunciare ad alcune sicurezze particolari, perché tutti siano più sicuri, perché a nessuno manchi il necessario per vivere.

Il covid19 ha aumentato le povertà morali e materiali, ha evidenziato la fragilità del sistema economico basato sul profitto e sull’accumulo, ha emarginato bambini, anziani, disabili, migranti, che sono diventati inutili o addirittura dannosi per una comunità impaurita ed inerme.

Questo non ci ha portati a riflettere sulla necessità di cambiare, ma ha semmai aumentato le paure e le distanze.

Tanti per paura ed avendone l’opportunità hanno preferito e preferiscono rimanere in casa, assumendo per se stessi il principio di “fragilità”, forzando norme che chiaramente sono nate per chi è davvero fragile e indifeso.

Lo Stato e le sue articolazioni territoriali – che sono i principali datori di lavoro in Italia – non prevedono che un lavoratore “fragile” possa svolger una diversa mansione consona alla sua condizione, per cui la conseguenza di una “diagnosi di fragilità” è la permanenza al domicilio. Ovviamente non va cosi nel settore privato e tantomeno può andare cosi nel “settore degli esclusi”, quello in cui la fragilità è uno status con cui si condivide ogni giorno.

Per questi ultimi non c’è nessuna tutela e nessun sostegno.

È come se la fragilità fosse anarchica, ciascuno può costruirla artigianalmente e usarla alla bisogna. Ma questa fragilità non è né solidale, né giusta. E’ solo figlia di una paura che non si riesce a gestire o di un opportunismo esacerbato.

La fragilità è un concetto, una condizione, che appartiene alla Comunità, sta all’interno di una rete di relazioni fra le persone, è intrisa di solidarietà.

Nella Comunità sono proprio le persone più fragili a segnare il passo, è il loro passo lento che offre a tutti la possibilità di gustare la vita e riscoprire la propria fragilità.

Riconoscere la fragilità, vuol dire impegnarsi per superarla, mettersi accanto a colui che la vive, compatire (patire con) chi è nel dolore, nella solitudine, nel pianto, sapendo che la fragilità ci appartiene, appartiene a tutti.

Essere consapevoli di avere dei limiti ci ricorda che non siamo onnipotenti. Ci sono persone che vivono solo per il potere, per accumulare beni e non si rendono conto di quanto bello possa essere condividere. Riconoscere le nostre imperfezioni ci permette anche di perdonare chi sbaglia, in quanto l’errore fa parte della fragilità umana.

Oggi più che mai, il mondo ha bisogno di riconoscere la fragilità, di riconoscersi nella fragilità, di ripartire dalla fragilità, per costruire una Comunità degli uomini più giusta. Per far questo è necessario avvertire una responsabilità solidale, circolare, essenziale, avviando così un percorso di “guarigione”.

Nel mio percorso di guarigione, quando “mi sono fermato per riprendere il cammino”, ho scritto a mia figlia queste parole: Santa inquietudine o angoscia…non lo so, il pensiero che mi accompagna è di sentirmi fragile accanto alla fragilità di chi mi cammina accanto. L’intensità dei miei giorni è un balsamo interiore, che mi ha fatto riconoscere ancora una volta i piccoli angeli che portano sulla loro pelle la croce di Cristo. Tenere il loro passo, mentre il mondo si affanna dietro futili bramosie di potere, è un’esperienza che auguro a tutti. Stare loro vicino è un privilegio, poterlo condividere un dono.

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