Alberto Negri, uno dei giornalisti italiani maggiormente capaci di leggere e di spiegare senza reticenze il quadro mondiale e le crisi geopolitiche, ha di recente ricordato un’affermazione di Donald Trump espressa nel 2014: «L’Arabia Saudita dovrebbe fare da sola le sue guerre o pagarci un’enorme fortuna per proteggerla».
A parte che i sauditi pagano «enormi fortune» agli Stati Uniti (e non solo a loro, ma anche all’Europa, Italia compresa) in cambio di armamenti, il principe ereditario Moḥammad bin Salman, detto MbS, potrebbe rovesciare e far propria la stessa dichiarazione. La spinta al conflitto con l’Iran, in effetti, se risponde ai desideri dei sauditi ancor di più corrisponde agli interessi strategici americani, che hanno sempre ben presente, sullo sfondo, il conflitto politico, economico e inevitabilmente anche militare con la Cina.
Peraltro, ricorda ancora Negri, in passato l’Arabia Saudita ha pagato, eccome, i Paesi che si sono prestati alle guerre che la interessavano: «Gli emiri versarono in otto anni di conflitto contro l’Iran circa 50 miliardi di dollari a Saddam, che, strangolato dai debiti, finì per invadere nel ’90 il Kuwait. Ma soprattutto i sauditi hanno pagato i conti per la liberazione dell’Emirato degli Al Sabah costata 60 miliardi di dollari: Riad versò 16 miliardi agli USA, il Kuwait la stessa cifra e la Germania 6,4, persino più del Giappone». La questione, commenta il giornalista, «è che vengono al pettine i nodi strategici di 70 anni fino all’attuale destabilizzazione innescata dagli americani e dai loro alleati. Prima ancora della fine della seconda guerra, appena dopo il patto di Yalta con Stalin e Churchill, il 14 febbraio 1945, Roosevelt e il sovrano Ibn Saud, stringono un accordo fondamentale per il Medio Oriente: petrolio in cambio della protezione americana del regno» (Golfo, l’audace colpo dei soliti noti, “il manifesto, 21 settembre 2019).
Le guerre per il petrolio
Nulla di nuovo, insomma. Il petrolio permane come una delle molle scatenanti e determinanti. Giusto per spiegare anche la rigida e sciagurata determinazione negazionista di Trump sul cambiamento climatico e sull’abbandono delle fonti fossili. Non fosse che quel quadro regionale è oggi reso assai più pericoloso e destabilizzato dalla guerra in corso ormai dal 2011 in Siria e da alleanze incerte e mobili, con il ruolo di cerniera occidentale della Turchia da tempo incrinato, con il rafforzamento della posizione della Russia nell’area e con l’intensificazione delle spinte israeliane al sempre desiderato conflitto armato con l’Iran e con i ripetuti attacchi illegali e bombardamenti che il governo di Benjamin Netanyahu da ultimo ha portato avanti contro la presenza sciita in altri Paesi (Siria e Libano, in particolare), nell’indifferenza complice degli organismi internazionali.
Il dossier USA sull’Iran era stato messo in stand by da Barack Obama all’indomani della sua elezione, e questo rimane forse l’unico risultato davvero stabilizzante conseguito dalla sua Amministrazione e dalla sua persona, che era stata subito gratificata all’inizio del mandato da un Premio Nobel per la pace, preventivo e probabilmente immeritato. Altrettanto prontamente e significativamente, quel dossier, da molto tempo sui tavoli del Pentagono e delle Agenzie di sicurezza statunitensi, era stato riaperto da Trump immediatamente dopo il suo insediamento alla Casa Bianca, con l’ingiustificata uscita dall’accordo internazionale 5+1 sul nucleare iraniano e, attualmente, con il crescendo delle sanzioni e la costante drammatizzazione dell’area, in ciò trovando l’apporto zelante di John Bolton e di Mike Pompeo, rispettivamente Consigliere per la Sicurezza e Segretario di Stato. Contemporaneamente, l’attuale inquilino della Casa Bianca fece la prima missione all’estero proprio nella capitale saudita, firmando contratti per oltre 100 miliardi di dollari.
Il licenziamento di John Bolton
Due settimane fa Bolton è stato messo bruscamente alla porta, e si tratta di capirne non tanto i motivi quanto gli effetti, in particolare su quel dossier, da ultimo reso sempre più incandescente dall’attacco houthi agli impianti petroliferi sauditi. Un fatto incredibile, stante il livello di militarizzazione di quel Paese e stante la protezione statunitense di cui gode. Che i droni utilizzati per l’attacco non siano stati preventivamente individuati dalle tecnologie difensive USA è fatto inusitato e, per molti versi, incredibile. Tanto da poter far immaginare che si avesse necessità di un robusto pretesto per salire un nuovo gradino nell’escalation, come è stato prontamente fatto con l’invio di nuove truppe americane nel Golfo.
Se il petrolio è spesso all’origine di guerre in corso, come anche in Libia (o potenziali, come in Venezuela), la costruzione di false prove o pretesti sono il meccanismo classico per innescarle. Un meccanismo che funziona quasi sempre, grazie anche al vassallaggio del sistema mediatico mainstream globale: è stato ben rodato con l’invasione dell’Iraq e le “pistole fumanti” di Saddam. Non altrettanto successo ha avuto con le armi chimiche di Assad. Vedremo ora con l’Iran.
Che quella sia la direzione di marcia è comunque reso evidente anche da semplici ma eloquentissimi numeri: l’Arabia Saudita, pur avendo soli 33 milioni di abitanti, è il primo acquirente di armi a livello mondiale. Negli ultimi cinque anni ha aumentato l’import bellico del 192%! Gli Stati Uniti ne sono il primo esportatore, e anche il primo fornitore dei sauditi, con vendite cresciute del 29%. Oggi ben il 36% delle armi commerciate nel mondo sono fabbricate negli USA. Dunque, se il possesso del petrolio è una delle principali cause dell’esplodere e del proliferare delle guerre, gli appetiti dell’industria bellica sono un secondo e concorrente motivo.
Il “super-falco” John Bolton ora è stato dunque licenziato da Donald Trump, che lo aveva nominato suo consigliere per la sicurezza non molto tempo fa. In precedenza, nel marzo 2018, con analoga e capricciosa determinazione, il presidente degli Stati Uniti aveva improvvisamente estromesso Rex Tillerson, già amministratore delegato della compagnia petrolifera ExxonMobil, divenuto suo Segretario di Stato appena un anno prima. Al suo posto aveva insediato Mike Pompeo, anch’egli considerato tra gli oltranzisti delle soluzioni belliche e sino ad allora a capo della CIA.
Questa è la storia recente. Ma è interessante, pur respingendo ogni suggestione “complottistica”, andare a guardare un po’ più indietro nella biografia di questo personaggio.
Una P2 mondiale all’ennesima potenza
C’è un film del 2018, Vice – L’uomo nell’ombra del regista Adam McKay, che racconta la scalata al potere di Dick Cheney, Segretario alla Difesa degli Stati Uniti con George Bush padre durante la Prima guerra del Golfo e poi vicepresidente, con Bush figlio, al tempo della seconda e dell’invasione dell’Iraq. In precedenza, era ai vertici della Halliburton, una multinazionale con interessi in campo petrolifero e della sicurezza che ha visto i propri affari ingigantirsi proprio grazie alla guerra irachena.
Il film mostra come il grumo di interessi bellici ed energetici, di cui anche la famiglia Bush è stata interprete e beneficiaria, non receda di fronte a niente. Compresa, appunto, la costruzione a tavolino delle “prove” false contro Saddam Hussein di cui abbiamo detto che sono state il pretesto per l’attacco e l’occupazione del paese petrolifero (con la complicità, va ricordato, di Tony Blair, primo leader di una socialdemocrazia europea convertita al liberismo).
A quella vicenda si può forse fare risalire quel definitivo divorzio tra verità e fattualità che con la presidenza Trump pare ora aver raggiunto vette di inedita estensione.
Ciò che nel film però non emerge è che quelle scelte non erano motivate solo dalla bramosia di potere di un singolo, ma erano l’esito da tempo programmato da un gruppo neocon, mascherato da istituto di ricerca, dal nome indicativo: “Progetto per un nuovo secolo americano”. Un gruppo che nel 1997 aveva avuto tra i fondatori lo stesso Cheney, il presidente della Banca Mondiale, numerosi deputati e ministri conservatori.
Una specie di P2 all’ennesima potenza. Un progetto egemonico fondato sull’interventismo bellico: sono loro i teorici della “guerra infinita”, con l’Iraq come prima tappa, rifacendosi alle teorie di Bernard Lewis, uno studioso britannico di islam morto lo scorso anno, propugnatore della balcanizzazione dell’intero Medio Oriente attraverso il sostegno a linee tribali e fondamentalismi religiosi. Tra i membri di quel progetto neocon vi era anche quel John Bolton, che in tempi recenti, assieme a Mike Pompeo aveva rispolverato il «Piano Lewis», formulato ancora alla fine degli anni Settanta, per sostenere operazioni coperte in Iran. Bolton stava spingendo per l’avvio della guerra contro l’Iran, così come per la soluzione militare e golpista della crisi venezuelana in corso. Riguardo a quest’ultima, aveva infatti elaborato un piano che prevedeva (o ancora prevede) l’invio nel Paese di 5 mila uomini della Blackwater, che è un’impresa di mercenari attiva in tutte le guerre recenti, a partire dalla Bosnia. Rinominata Academi, la compagnia, presente e attiva anche nella crisi Ucraina, favorita dall’Amministrazione Obama e da Hillary Clinton, è rapidamente cresciuta da un fatturato di 200.000 dollari annui prima dell’11 settembre a oltre un miliardo attuale.
Finché c’è guerra c’è speranza (di affari)
L’estromissione di Bolton dall’importante ruolo che ricopriva, determinante negli scenari geopolitici globali, dovrebbe costituire una notizia positiva e rassicurante per chi ha a cuore la stabilità mondiale. Non lo è, o almeno non lo è completamente, se si considera però che il Segretario di Stato Mike Pompeo non è meno “falco” e interventista di lui e, soprattutto, se si conosce il fatto che l’Amministrazione Trump è piena zeppa di ex manager e lobbisti già in affari con il Pentagono, a partire dal Segretario alla Difesa, in precedenza alto dirigente della Boeing, incaricato di vendere elicotteri ed equipaggiamenti all’esercito americano. Per quel genere di persone, e per quel meccanismo di porte girevoli tra multinazionali e politica, finché c’è guerra c’è speranza (di lauti affari, naturalmente).
In definitiva, la messa alla porta della Casa Bianca di John Bolton probabilmente risponde, più a una strategia divergente, alle logiche di un potere capriccioso che si vorrebbe assoluto, di cui Trump attualmente è sicuramente il massimo rappresentante nel mondo.
Nel nostro piccolo italiano, abbiamo di recente avuto modo di assistere a come e quanto quel tipo di potere possa inciampare (o, provvidenzialmente, auto-sgambettarsi). Questa rimane la speranza per il prossimo futuro anche a livello mondiale. Anche perché se così non fosse, se i massimi esponenti del negazionismo climatico, se i Trump e i Bolsonaro continuassero indisturbati, il futuro sarebbe assai meno garantito, come ci spiegano di nuovo in questi giorni i milioni di giovani mobilitati in tutto il mondo per il Climate global strike.
Ribelliamoci all’estinzione, ai signori delle guerre, del petrolio e del riscaldamento globale. Finché siamo in tempo.
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