L’associazione calabrese di epatologia-Ace ha aperto il suo primo ambulatorio di medicina solidale a Pellaro nella periferia sud del capoluogo. Fin da su subito l’idea era quella che l’assistenza fosse per tutti; è nato poi un secondo ambulatorio e da poco anche un Parco diffuso della conoscenza e del benessere. A muovere il tutto il volontariato ma anche l’idea che «la medicina deve adattarsi al territorio e imparare a prendersene cura» come spiega il presidente Lino Caserta
“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”. Il grande tabellone che riporta l’articolo 2 della Costituzione italiana campeggia proprio all’ingresso. Suona come un invito, una rassicurazione per tutti coloro che varcano il portone. Il messaggio è chiaro: qui tutti vengono assistiti, senza eccezioni. Il Centro Ace di medicina solidale nasce con il duplice obiettivo di offrire un ambulatorio medico capace di garantire prestazioni di qualità e gratuite e di promulgare la cultura della salute.
La storia dell’associazione calabrese di epatologia-Ace nasce circa 20 anni fa da alcuni professionisti dell’ambito sanitario che hanno scelto di riunirsi in un’associazione per dedicarsi alla ricerca epidemiologica. L’epidemiologia è la disciplina che studia le cause e la distribuzione delle malattie, una forma di sociologia medica «che pone in evidenza i determinanti della salute e l’importanza della prevenzione, soprattutto in relazione al mutare dei contesti sociali». Lo spiega Lino Caserta, medico e presidente dell’associazione. Un esempio pratico è l’obesità, considerata anticamente la malattia dell’opulenza e della ricchezza di cui oggi invece soffre soprattutto la fetta più povera della popolazione da un punto di vista sia economico sia culturale.
Il Centro Ace nasce a Pellaro, nella periferia sud di Reggio Calabria, in un momento in cui la crisi economica impoveriva le persone e in cui la sanità calabrese era già commissariata. Si sviluppa all’interno di quella che avrebbe dovuto essere una struttura psichiatrica mai entrata in funzione. Al Centro Ace si svolgono attività finalizzate soprattutto alla prevenzione delle malattie cronico degenerative, prestazioni specialistiche e indagini diagnostiche. «Da quando abbiamo aperto le attività sono partite subito, nel giro di pochi mesi avevamo le liste di attesa».
Uno degli ambienti del Centro Ace – in basso Lino Caserta
Il Centro Ace accoglie tutti gratuitamente ed è governato da un principio molto semplice: paga solo chi può, lasciando una donazione. «Quando abbiamo iniziato immaginavamo di poter andare avanti solo attraverso il volontariato, grazie al lavoro di ricerca scientifica avevamo già ottenuto infatti dei finanziamenti da parte di alcune fondazioni private», racconta Caserta. Un giorno poi una paziente ha insistito per lasciare spontaneamente una donazione: «Altrimenti, se voi chiudete, io poi come faccio?» disse. In realtà, spiega Caserta, «lei stava suggerendo una dimensione etica molto più ampia di quello che avevamo immaginato noi: quel piccolo gruppo che avevamo creato doveva poter sopravvivere grazie all’assunzione di responsabilità dell’intera comunità. È grazie a questa se oggi il Centro Ace continua a vivere e a moltiplicare le sue attività».
Negli ultimi anni il Centro Ace ha aperto un secondo ambulatorio nella zona nord della città, ad Arghillà, già tristemente noto alle cronache nazionali come “quartiere ghetto” dove mancano i servizi e dove le istituzioni non hanno mai individuato delle soluzioni. «Siamo entrati in contatto con un’umanità disperata che ha perso la consapevolezza dei propri diritti e la fiducia nei confronti delle istituzioni, che manca di conoscenza dei bisogni di salute» racconta Caserta. «Qui la malattia viene presa in considerazione solo quando determina un problema fisico». Mentre a Pellaro la comunità ha risposto subito, ad Arghillà il centro ha faticato ad ingranare. C’è riuscito riscrivendo il paradigma clinico classico, esternalizzando le proprie attività grazie alla rete di operatori, assistenti sociali e mediatori culturali che operano nella zona: «Siamo riusciti a far acquisire alle persone una maggiore consapevolezza dei loro bisogni per ricondurli così al luogo di cura, il Centro stesso».
È un’esperienza questa che ha fatto emergere una nuova idea della medicina di prossimità, di cui tanto si discute da diversi anni in relazione al riordino del sistema sanitario e al Pnrr. «La sanità non può funzionare in tutti i posti allo stesso modo», spiega Caserta. «La prossimità è un problema di metodo, è la capacità di cogliere e modificare la possibilità di intervento su uno specifico contesto. La medicina deve adattarsi al territorio e imparare a prendersene cura».
A questo scopo l’ultima iniziativa di Ace riguarda la creazione del Parco diffuso della conoscenza e del benessere: «L’ambiente oggi rappresenta uno dei determinanti maggiori per la salute delle persone, così come la pandemia da Covid-19 ha dimostrato. Il Parco per noi diventa il luogo simbolico per rimarcare l’importanza dell’ambiente per godere di un maggiore livello di salute. La “cura” medica passa dal benessere complessivo delle persone». All’interno del Parco vengono organizzate attività culturali per adulti e bambini perché «maggiore è la nostra capacità critica e maggiore sarà la capacità di gestire la nostra salute».
Dalla ricerca agli ambulatori specialistici gratuiti, Ace da circa 20 anni promuove dal profondo sud italiano una nuova cultura della salute, tentando di rispondere alle mancanze del settore pubblico, nell’ambito di un sistema sanitario in profonda crisi.
Ci riesce perché «il volontariato ha una marcia in più: non è sostenuto da principi di utilità ma di etica e passione, del legame con la comunità. Ciò che si è perso nel settore pubblico è l’orizzonte di senso. Il settore pubblico nasce per occuparsi dei servizi fondamentali, quali la sanità e l’istruzione, perché dare modo alle comunità di crescere nella serenità. Oggi quell’orizzonte si è perso e il settore pubblico si è trasformato in una risposta meramente burocratica ai bisogni dei cittadini lasciando sempre maggiore spazio al privato» conclude Caserta. «Per salvare la sanità pubblica, in Calabria come nel resto del Paese, occorre riscoprire quale sia il suo ruolo nelle vite delle persone».
Nell’immagine in apertura l’ingresso del Centro Ace a Reggio Calabria
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