Elencare il numero di crisi che si abbatte su noi cittadini e brutalizza in particolare le persone più vulnerabili è esercizio che già mi annoia, considerate come se l’avessi fatto. Non è quindi questo il tempo per investire nella comunicazione del terzo settore?
Certo che no. Non in questi mesi, in cui, per dire, 20 organizzazioni han scelto di non convenzionarsi con il Comune di Milano dopo l’ultimo bando residenzialità minori. Comunità che chiudono, operatori sociali sottopagati, emergenze crescenti: come si può pensare che il non profit abbia risorse da mettere nella comunicazione?
Il problema è che il momento giusto per investire nella comunicazione non c’è mai stato;
fermate uno per strada, chiedetegli cosa sia il terzo settore, cosa vi risponde? Ecco.
Quel tempo non è mai arrivato anche per motivazioni nobili, quali la scelta di focalizzare l’impegno sui servizi e una certa ritrosia nell’autopromozione. Talvolta si è creato un ufficio comunicazione semplicemente per ricollocare personale educativo in burn out, senza che i neocomunicatori avessero formazione o predisposizione per il ruolo.
Questo ha ridotto la possibilità di entrare in relazione (la comunicazione è relazione) con ampie fette di cittadinanza. Questo ha ridotto la possibilità del non profit italiano di fare cultura in senso diretto, in termini di advocacy e informazione su temi sociali che padroneggiamo come nessun altro, e di cui peraltro i politici si riempiono la bocca. Questo ha ridotto la possibilità del non profit di fare cultura in senso indiretto, in termini di raccontare quello che facciamo e come lo facciamo.
Questo è uno dei motivi per cui il terzo settore, i luoghi, i beneficiari, noi operatori, ad oggi siamo invisibili. Veniamo coinvolti quando fa comodo (campagna elettorale, emergenze varie) ma non quando fa scomodo (coprogrammazione, piano nazionale di ripresa e resilienza, definizioni politiche).
Di storie ne abbiamo ed è possibile raccontarle con tutti i crismi dello storytelling proteggendo rigorosamente l’identità dei protagonisti. Quando qualcuno lo sa fare il pubblico se ne appassiona (Mare Fuori, Maid, Tutto chiede salvezza,…).
Abbiamo contenuti e valorialità, avremmo bisogno di fare cultura, dobbiamo farlo. Molte delle mission organizzative lo prevedono. Anche il comunicatore sociale è un operatore sociale, con competenze peculiari e in formazione costante, e, non c’entra ma c’entra, Vita dovrebbe aprire un account su Tik Tok. In my opinion.
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