Mondo

Doppio Messico

Un grande scrittore e un grande fotografo (ma pure lui scrittore). Carlos Fuentes e Juan Rulfo (di Giorgio Contessi).

di Redazione

Carlos Fuentes Messico madre patria, Messico amato, Messico lontano. Uno stesso Paese, due sguardi. Che si incontrano nella poesia e nella realtà. Sono quelli di due grandi scrittori: Carlos Fuentes e Juan Rulfo. Una passione dalla quale oggi possiamo lasciarci avvolgere anche noi grazie alla presenza in libreria della traduzione italiana dell?ultimo romanzo di Fuentes, Relazioni lontane, e alla mostra, in corso a Milano, dei frutti dell?altro grande amore di Rulfo, la fotografia. Conosciamoli. Carlos Fuentes: Sono cresciuto lontano dal Messico e l? ho sempre guardato con una certa prospettiva. Da bambino per me era la terra mitica di cui mi parlavano i miei genitori: però vi passavo le estati con le mie nonne e dunque era anche molto vicino.Gli altri narratori messicani hanno scritto a partire dalla vicinanza, come Juan Rulfo. Io invece ho scritto un romanzo urbano, un libro su Città del Messico (L?ombelico della luna), volendo cogliere la totalità della città. È una questione di prospettiva. Vita: Lei che ha vissuto ?fuori? molto tempo sente ancora il Messico come sua patria? Fuentes: Certo! Da sempre mi sento messicano. Mio padre era rappresentante del Messico proprio quando vi erano relazioni molto tese con gli Stati Uniti: doveva difendere alcune riforme interne alle quali i nordamericani si opponevano. Questo mi ha permesso di sentire con più forza la mia identità. Sono cresciuto con la sensazione di essere messicano, però anche di essere in relazione con altri mondi: con gli Stati Uniti, dove sono cresciuto, ma anche con l?Argentina e il Cile, dove ho studiato. Nessun altro ha riassunto questo concetto meglio dello scrittore messicano Alfonso Reyes: «per essere utilmente nazionali, dobbiamo essere generosamente universali». Vita: Gli immigrati come vivono la lontananza, come si relazionano alla propria identità? Fuentes: Io le posso parlare dei diversi atteggiamenti dei lavoratori messicani immigrati negli Stati Uniti. C?è chi cerca subito l?assimilazione, altri vogliono solo un lavoro stagionale, altri ancora intendono ?resistere? per mantenere vivi i valori della loro cultura, infine ci sono a volte i figli che vogliono recuperare l?identità messicana e la lingua spagnola. Vita: L?immigrazione attuale, per peso e dimensioni, ha bisogno di risposte serie? Fuentes: Per forza, perché l?immigrazione è diventata il fenomeno centrale del XXI secolo. Il dibattito politico attuale è però caratterizzato da una grande ipocrisia, soprattutto nei paesi sviluppati i quali hanno estremo bisogno di questa manodopera, ma si relazionano ad essa come se fosse qualcosa di diabolico. L?immigrato merita rispetto: non è un criminale, ma un lavoratore! Vita: La convivenza delle culture è dunque possibile? Fuentes: Sì, questa frontiera interna svanirà. La difesa della molteplicità delle culture è assolutamente indispensabile per il futuro dell?umanità. L?accettazione delle differenze all?interno dell?unità sociale è l?unica forma sana che io conosco per poter convivere nel XXI secolo. Vita: Torniamo al ?suo? Messico. Dopo 70 anni di dominio del Partito Revolucionario, nel 2000 le elezioni sono state vinte dall?attuale Presidente Vincente Fox? Fuentes: Il Paese è cambiato. Il presidente adesso non ha più un potere onnivoro come in passato: ora le sue proposte sono molto più vincolate al Parlamento. Anche questo è un male per il paese: tutte le iniziative dell?esecutivo si paralizzano in Parlamento e ciò rende più difficile la transizione democratica. E il continua ad avere grandi problemi, a partire da quello della miseria in cui vivono milioni di messicani e dalla mancanza di coordinamento politico. Vita: È cambiata l?attitudine dei messicani verso la politica? Fuentes: C?è una società civile molto attiva che tenta di cambiare le cose e anche una stampa più critica. Il trionfo di Fox ne è la prova, ha trionfato grazie alla popolazione urbana: la classe media e quella operaia. Vita: Una domanda di rito. La democrazia in America Latina è malata? Fuentes: La democrazia è presente nella maggior parte dei paesi dell?America Latina, ma vi è molta impazienza e insoddisfazione: i casi dell?Argentina, del Venezuela e della Colombia sono senza dubbio i più acuti. La gente dice «che bella la democrazia, però a che ora mangio?». Questo potrebbe preparare una reazione di tipo autoritario, perché non abbiamo una profonda cultura democratica, ma una lunga cultura autoritaria. Vita: Se la democrazia è sempre in bilico, la lingua spagnola però trionfa, non è vero? Fuentes: Lo spagnolo è oggi la seconda lingua occidentale, utilizzata da ben 400 milioni di persone e ha una enclave di ben 35 milioni di parlanti all?interno degli Stati Uniti d?America. È una potenzialità enorme: persino i politici candidati alla presidenza parlano spagnolo! Mi ricordo che quando ero bambino nei ristoranti degli Stati Uniti si scriveva «vietato entrare a cani e a messicani» oppure «vietato parlare spagnolo». Era un?altra epoca. Ora lo spagnolo è l?unica lingua rivale dell?inglese. Vita: Dalla lingua alla letteratura il passo è breve. Ha ancora senso parlare di letterature nazionali o dobbiamo parlare solo di letteratura di lingua spagnola? Fuentes: Sono convinto della necessità di parlare della letteratura spagnola in senso unitario. L?Atlantico non è un abisso, ma un ponte. Per l?inglese è diverso: se è possibile individuare grandi differenze tra uno scrittore statunitense e uno britannico o tra uno nigeriano e uno australiano, non è così fra gli scrittori spagnoli e argentini o messicani. C?è più coesione tra chi vive nella terra della Mancha, nel mondo del Don Chisciotte di Cervantes: il territorio letterario di chi parla spagnolo. Vita: E la sua prossima ?terra della Mancha?? Scriverà mai un libro che sarà ?il? suo libro? Fuentes: No, il libro dei libri è qualcosa di impossibile: sarebbe quello che Italo Calvino chiama ?il libro sacro?, cioè perfetto e illeggibile. No, un libro deve sanguinare attraverso le ferite della sua imperfezione. Juan Rulfo Vi sono scrittori prolifici la cui vita è una vasta galleria di opere. Ve ne sono invece altri il cui lavoro è condensato in una o due fatiche soltanto, ma di immenso valore letterario. L?autore messicano Juan Rulfo appartiene a questa seconda categoria grazie al romanzo Pedro Páramo (Einaudi, 1977) e ai racconti di La pianura in fiamme (Einaudi, 1990), pubblicati in Messico negli anni 50. Se il Rulfo letterato, sull?Olimpo degli scrittori messicani, è stato studiato a lungo, molta luce è ancora da fare sull?altra attività dell?autore: la fotografia. Proprio in questi giorni è in corso a Milano (fino al 16 agosto, in corso Magenta, 59) la mostra México. Juan Rulfo fotografo che offre un?accurata selezione di 100 scatti in bianco e nero del grande scrittore, realizzati fra il 1945 e il 1955. «Le fotografie sono state scelte», spiega Victor Jiménez, il direttore della Fondazione Juan Rulfo di Città del Messico, «fra i 6mila negativi dell?autore, in gran parte ancora poco conosciuti. Abbiamo voluto presentare il ventaglio dei suoi diversi interessi fotografici». Il titolo della mostra e del libro che la accompagna (Editoriale Jaca Book, 2002) esprime questo ventaglio che ruota tutto attorno a un grande nodo: il Messico, appunto. Rulfo lo conobbe assai bene: vi nacque nel 1917 (nello stato di Jalisco, a nordovest di Città del Messico) e lì visse sino al 1986, anno della sua scomparsa. L?autore percorse il Paese in lungo e in largo, prima come ispettore del servizio di immigrazione, poi come commesso viaggiatore per una ditta di pneumatici e infine come funzionario dell?Istituto Nazionale Indigenista. «Ci si dimentica sempre», precisa Victor Jimenez, «che Rulfo cominciò a fotografare il Messico ancor prima: negli anni 40 lo percorse con la macchina fotografica in mano». Paesaggi intensi, agavi e vulcani, rovine precolombiane e chiese coloniali in decadenza mischiate con i cactus, espressione della dolorosa storia del Paese. E poi l?umanità in cammino: gli indios, i contadini, i passi quotidiani nella vita rurale, le feste e i mercati. È il Messico immortalato da Rulfo che nel Pedro Páramo scrive: «Il mio paese, alto sulla pianura. Pieno di alberi e foglie, come un salvadanaio dove abbiamo conservato i ricordi». È il Messico che ha attirato anche altri fotografi, come Tina Modotti ed Edward Weston. È il Messico post rivoluzionario che non ha portato in realtà alcun miglioramento per il popolo, i deboli, i senza voce. «Ogni uomo, ogni donna, ogni bambino di questa meravigliosa collezione di fotografie», scrive Carlos Fuentes nell?introduzione del libro, «possiede la bellezza delle forme che si rifiutano di essere dimenticate. L?arte letteraria e l?arte plastica di Rulfo convergono in questo punto». Gli scatti dell?autore esprimono il legame viscerale con la sua terra madre: il Messico. L?occhio fotografico di Rulfo è in realtà un «ombelico fotografico». Un ombelico che gli permette di respirare la terra e l?anima e i silenzi del Messico profondo. Di essi Juan Rulfo è il cantore. Con l?immagine e la parola. Giorgio Contessi

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