Franco Falorni

Nelle nostre strutture ho scoperto la bellezza della prossimità

di Luigi Alfonso

Parla il presidente della Fondazione Casa Cardinale Maffi, che gestisce otto strutture sparse tra la Toscana e la Liguria. Circa 500 ospiti seguiti da oltre 400 operatori. Il successo della Palestra di Gabriele, momenti di formazione aperti a tutti. Per allenare i muscoli della solidarietà e dell’amicizia

Nel numero di novembre di Vita Magazine l’abbiamo indicata come uno dei modelli virtuosi da tenere in considerazione quando si parla di Residenze sanitarie assistenziali. La Fondazione Casa Cardinale Maffi gestisce otto strutture (per anziani, per disabili e per malati psichiatrici) sparse in diverse province di Toscana e Liguria: circa 500 ospiti seguiti da oltre 400 operatori. Numeri importanti, che contrastano con quelli delle comunità che propongono nuclei più snelli. Ne parliamo con il presidente della Onlus, Franco Falorni, in un’intervista senza peli sulla lingua.

Molte Rsa hanno mostrato evidenti limiti durante la fase più acuta della pandemia, ma non tutto è da buttare. Si cerca di individuare il modello da imitare. Il vostro lo è?

Dire che possiamo essere un modello, mi sembra azzardato. Sappiamo bene di avere le nostre magagne. Cerchiamo di vivere la quotidianità affrontando i problemi e risolvendoli, volta per volta. Se dovessimo dire che siamo un modello perché perseguiamo costantemente un equilibrio economico-finanziario, non sarebbe corretto: perché è vero che seguiamo persone fragili ma è pur vero che abbiamo una certa fragilità anche nei nostri bilanci economici, patrimoniali e finanziari. Come molte Onlus che hanno per oggetto la cura delle persone, non siamo ridondanti nelle risorse a nostra disposizione. Un problema acuito nell’ultimo anno dall’aumento dei costi energetici, dalle tariffe ferme da tempo, dagli investimenti che dobbiamo affrontare per assolvere agli obblighi delle normative antisismiche, le quali ci impongono di ristrutturare tre vecchi immobili: per intenderci, occorre un investimento da 19 milioni di euro. A volte è meglio costruirne di nuovi che ristrutturare gli esistenti. Se le istituzioni locali e nazionali capissero che c’è necessità di strutture come le nostre, metterebbero a disposizione delle risorse: non parlo di soldi a fondo perduto, sia ben chiaro, ma di denaro da restituire in 20 o 30 anni.

Il modello, a suo avviso, quale potrebbe essere?

Di sicuro non può essere quello che si rifà all’efficientismo, per lo meno quando è correlato a un’attività che tocca l’aspetto di una o più persone. Al mio Consiglio di amministrazione, tempo fa, ho presentato un Manifesto della Rivoluzione. Questo termine fece trasalire il nostro vescovo, che mi fece notare il peso della parola da me utilizzata. Se preferite, possiamo parlare di evoluzione, che in certi contesti suona meglio. Ecco, questo modello poggia su alcune parole chiave.

A proposito di parole, lei è allergico alla parola “ospite”. Come chiama le persone ospitate nelle vostre strutture?

Preferisco definirli “fratelli e sorelle preziosi”, anche se può apparire retorico. Tra tutti coloro che vivono in queste strutture si innesca un rapporto di fratellanza. Come puoi chiamare ospite una persona che ha 70 anni e da 60 vive con noi? Non è buonismo. A me la parola “ospite” appare molto burocratica: così la persona diventa un numero, una retta da pagare. È vero, cerchiamo un equilibrio nei numeri, ma ponendo sempre l’Uomo al centro di tutto.

Lei davvero li vede come fratelli e sorelle?

Sarò sincero: a volte mi viene difficile. La stanchezza e gli impegni talvolta fanno venire meno la disponibilità per ricevere una loro telefonata alle 10 di sera. E allora dobbiamo tutti fare uno sforzo per pensare che quella telefonata è davvero molto importante per chi la fa, perché spesso richiede semplicemente l’ascolto. Dobbiamo trasformare le nostre strutture da fortini a tende, aprirle alla comunità. Lo so, non è facile: quando ospiti persone con disagi psichiatrici, sei costretto a chiudere i cancelli. Bisogna creare un’osmosi tra le strutture e il territorio. Noi ci tentiamo, per esempio con la Palestra di Gabriele: sono momenti di formazione di uno, due o tre giorni, aperti a tutti, dagli studenti ai manager, dai preti a chi ha un po’ di tempo libero. Aiutano ad allenare i muscoli della solidarietà e dell’amicizia.

Come funziona questa Palestra?

Invitiamo le persone a vivere la quotidianità con noi, a provare che cosa si prova su una sedia a rotelle, a 70 centimetri dal pavimento. Oppure vivere bendati: molti dei nostri fratelli non hanno voce e neppure la vista. I coach della Palestra di Gabriele sono i nostri operatori, ma anche alcuni dei nostri fratelli e sorelle preziosi.

Avete riscontri positivi?

Guardi, da noi sono venute non meno di 250 persone, di cui 30 lo scorso mese. Al termine di questa esperienza, solitamente la definiscono “cruda ma bella”. Ha lasciato una traccia, infatti molti giovani tornano a trovare i nostri fratelli.

Il vostro nome ormai è conosciuto nel Centro-nord Italia, e non solo.

Sì, ma non tutti conoscono a fondo le nostre attività. Compresa la pubblica amministrazione. Spesso si ha paura di entrare a contatto con certe realtà. Io, molto provocatoriamente, dico a chi amministra gli enti: è più importante il contenitore, cioè il bel palazzo in cui operiamo, oppure il contenuto? Bisogna pensarci bene, prima di rispondere. Soprattutto quando si parla di sanità e socioassistenziale. Noi proponiamo dei luoghi di bellezza. La bellezza della fragilità.

Lei ha scritto un libro, “Il dito medio di Romina”, che fa riflettere parecchio.

Si fa riferimento a un dito medio diverso da quello utilizzato dall’archistar Frank Gehry in risposta alla domanda di un giornalista (“Che cosa risponderebbe a chi l’accusa di fare un’architettura troppo appariscente, ostentata?”). Quello del mio libro è un dito medio storto: è di Romina, una sorella preziosa costretta su una carrozzina da vent’anni, che cerca di guardare il cielo chiuso dal soffitto. Una donna che gorgoglia e non parla. Ecco, dopo averla conosciuta ho cambiato il mio atteggiamento: ho cominciato a vedere all’interno delle nostre strutture una bellezza che prima non riuscivo a cogliere. La bellezza della prossimità.

Un esercito di persone, tra ospiti e operatori, richiede un impegno non da poco nella gestione.

Sì, soprattutto perché siamo frammentati in un territorio molto ampio. La gestione è molto complessa, ma cerchiamo di tenere sempre a mente una cosa: è il noi che contiene l’io, non il contrario. Forse non tutti colgono il senso profondo di questo pronome, “noi”, però camminiamo insieme e ogni giorno facciamo un passo avanti. E se mi volto a guardare indietro, vedo che insieme a noi camminano sempre più persone. Ecco, forse il vero modello da seguire è quello di una visione, di un itinerario che non può essere affrontato da soli. Di solito i modelli vengono costruiti con algoritmi ben definiti, inamovibili. Invece noi siamo in continuo movimento e cerchiamo di rompere determinate architetture. Se dovessi dipingere un quadro, mi rifarei all’arte contemporanea e non a quella del Rinascimento, che aveva colori decisamente più rassicuranti. Ma erano altri tempi.

A proposito di tempi che cambiano, nel 2022 avete festeggiato i 75 anni della vostra Fondazione.

Nel 1947, quando il parroco di San Pietro in Palazzi, don Pietro Parducci, decise di istituire l’Ente, la struttura originaria arrivò a ospitare un migliaio di persone. Oggi nello stesso edificio ne accogliamo una sessantina. Già questo fa capire come sia cambiato l’approccio. In più, adesso è richiesta una elevata professionalità degli operatori, non ci si può rifare soltanto alla gratuità nell’aiutare gli altri.

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