Walter Massa

Solitudine e abbandono, il vero cancro di questi tempi

di Luigi Alfonso

Il neopresidente dell'Arci si racconta e parla del futuro prossimo di questa grande organizzazione. La necessità di guardare agli ultimi, ma anche ai giovani, alle donne, agli immigrati. "I valori della sinistra ci sono ancora, il problema è chi li interpreta"

Cinquantenne, genovese, con un’esperienza ultratrentennale all’interno dell’Arci. Walter Massa da poche settimane è il nuovo presidente nazionale dell’Associazione.

Massa, si presenti meglio ai nostri lettori.

«Sono uno dei dirigenti dell’Arci, non l’unico della mia generazione, che è partito da un circolo della periferia genovese e poi è passato per tutti i livelli, sino alla direzione nazionale. Sono multitasking: ho svolto diversi ruoli e sviluppato un’esperienza particolare attorno ai temi del welfare, dell’immigrazione, della cittadinanza e dell’accoglienza. MI sono poi occupato delle dinamiche più associative legate ai modelli organizzativi. La fortuna è stata che, per molti di questi ruoli, ho potuto girare parecchio il territorio nazionale e apprendere tantissimo. La nostra vera forza è il radicamento territoriale, la sua diffusione».

Ha fatto tutta la trafila nell’Associazione, dunque può dirci se siete adeguati ai tempi oppure se dovete cambiare pelle.

«Negli ultimi 20 mesi abbiamo dimostrato di essere molto adeguati ai tempi, e lo dimostra l’attenzione che abbiamo ricevuto a livello nazionale durante tutto il periodo congressuale. Il mondo progressista riesce a riconoscersi in noi senza grandi problemi, e anche a convivere: non sono mancati aspri confronti, ci sta; però non c’è mai stato uno scontro legato ad appartenenze di partito o politiche. Da noi c’è sempre stata una coabitazione che definirei naturale, e questo negli anni è risultato attrattivo. Il nostro ultimo congresso ha visto la presenza di molti leader, di partito e non solo. In tanti sono occupati da anni a ritrovare la sinistra e i valori progressisti, che da noi non hanno mai smesso di vivere. Alcuni valori in particolare abbiamo deciso di non barattarli mai, per nulla: penso ai temi dei diritti, dei più deboli, dell’immigrazione. A proposito dell’accoglienza, un tempo l’abbiamo fatta per chi dal Sud andava al Nord, oggi la facciamo nei confronti di chi arriva da lontano. Uno dei nostri obiettivi è quello di estendere il reddito di cittadinanza anche a loro».

Quindi il modello Arci va bene così e non si tocca?

«No, c’è sempre qualcosa da cambiare. La riforma del Terzo settore ci ha spronati a cambiare, ma non ci è molto amica. L’aumento della burocrazia non è il modo migliore per aiutare il Terzo settore. Molti nostri circoli stanno soffrendo questo problema. Noi vogliamo occuparci delle nostre comunità, non vogliamo essere oberati dai carichi di burocrazia, per giunta con la paura di essere considerati dei ladri».

Ha parlato di sinistra. Esiste ancora o è presente soltanto nel cuore dei nostalgici, cioè della stragrande maggioranza di coloro che non vanno più a votare?

«I valori della sinistra ci sono ancora e ci sono tutti. Il problema, da un po’ di tempo a questa parte, è chi li interpreta. Quei valori vivono ancora in una sinistra popolare e diffusa. Credo in una sinistra non istituzionale, che difende i più deboli, possibilmente non barattando quella rappresentanza con qualcos’altro. È un problema non solo italiano, ed è molto sentito. Faccio una riflessione a titolo personale: ho scelto di vivere la mia vita politica in seno all’Arci. L’imbarbarimento culturale degli ultimi 20 anni è legato proprio all’assenza della politica. I cittadini devono riappropriarsene in forma collettiva, in favore del bene comune, anche senza liste elettorali. E questo all’Arci lo facciamo. Solo dopo si può pensare anche alle liste elettorali».

Socialità, mutualismo, solidarietà, lotta alle disuguaglianze. E ancora: cultura, pace, diritti. Questi i fari che indicava il suo predecessore, Daniele Lorenzi, appena un anno fa. Continuano ad essere il vostro “orizzonte da guardare con sguardo aperto e curioso”?

«Sì, assolutamente. C’è un tema che lui ha posto all’Associazione circa 20 mesi fa e che noi abbiamo seguito e seguiremo: quello delle disuguaglianze. Che non è una e non riguarda un solo aspetto. Per la prossima fase aggiungerei due parole: la cura (cura del territorio, dei gruppi dirigenti, dei volontari, dei soci) e la prossimità. Anche questi temi possono essere la chiave di volta per chi cerca di ricostruire la sinistra. Attenzione ai territori, alla solitudine che è il vero cancro di questi anni: genera paure, intolleranza e razzismo, e purtroppo non è più solo un razzismo nei confronti di chi arriva da altri continenti ma anche verso i più poveri. La paura di diventare più poveri alimenta fobie e intolleranza. I nostri circoli, le Case del popolo, le società di mutuo soccorso nascevano nel secolo scorso laddove c’erano le comunità. Oggi invece dove ci sono i luoghi della socialità. E qui le praterie diventano amplissime per tutto il Terzo settore, non solo per l’Arci. Se lo capissero le istituzioni, faremmo bingo».

In tempi di crisi si è ripreso a parlare tanto di confronto e di collaborazione. Per voi è possibile dialogare con gli esponenti della nuova destra italiana?

«Io penso di sì. Se c’è una cosa che è uscita fuori dal congresso, è che non siamo per niente spaventati dai risultati delle ultime elezioni. Abbiamo la forza di sapere che i nostri valori e il nostro sapere non sono barattabili. Possiamo confrontarci con chiunque, senza temere di perdere la nostra identità. Non smetteremo di far presente la nostra voce e continueremo a dire a questo governo che cosa va bene e cosa no».

Lei ha maturato notevole esperienza nel settore dell’infanzia e adolescenza, uno dei target maggiormente penalizzati dalla pandemia e, soprattutto, dalle relative restrizioni. I malesseri di bambini e giovanissimi si stanno moltiplicando. Che cosa occorre per aiutarli?

«Intanto bisogna cominciare a pensare a qualche misura che vada in quella direzione. L’unica politica giovanile in questo Paese è quella del Servizio civile, e meno male che c’è. Ma non possiamo pensare che il futuro delle giovani generazioni non preveda forti investimenti da parte dello Stato. In questi anni si sono moltiplicati gli interventi, per esempio sul versante della povertà educativa, che è fondamentale. Ma per il resto siamo ancora all’anno zero. Continuiamo a discutere di chi arriva e mai di chi se ne va, e qui il saldo è decisamente negativo. Si pensa solo che i cervelli vadano a fare gli ingegneri alla Nasa: la maggior parte dei ragazzi va all’estero per fare i camerieri a Londra o a raccogliere la frutta in Australia a tre dollari l’ora. Questo Paese deve ragionare sul suo futuro, cosa che non fa da vent’anni. Lo svuotamento dei territori del Sud è inquietante ma pochi se ne occupano. Noi invece vogliamo continuare a occuparcene».

Immigrazione, inclusione e accoglienza sono parole che lei conosce bene e da vicino. Come si coniugano con la realtà di questo periodo storico?

«Intanto, sgombrando il campo dall’ipocrisia. E ce n’è tanta, anche in certa rappresentazione mediatica. Muore una bambina di tre anni nel Canale di Sicilia e il titolo di un giornale è dedicata ai provvedimenti che il governo vuole varare. Il vero problema è che dal 2002 esiste una legge, conosciuta come Bossi-Fini, che impedisce l’ingresso regolare nel nostro Paese. Una legge che nessun governo ha toccato. L’unico modo per entrare in Italia sono i decreti flussi che per molti anni non sono stati emanati perché, si diceva, sta arrivando troppa gente via mare. Noi chiediamo che la Bossi-Fini venga abrogata, per introdurre canali d’ingresso regolari».

La destra sostiene che le navi delle Ong battono bandiere di Paesi che scaricano il problema dei migranti sull’Italia, primo punto d’approdo dall’Africa.

«Se permettessimo gli ingressi regolari, non ci sarebbe bisogno delle Ong e neppure dei cittadini italiani ed europei che si auto-tassano per fare in modo che le persone non muoiano nel Mediterraneo. Quei morti pesano sulle coscienze di tutti i governi italiani ed europei che si sono succeduti negli ultimi vent’anni».

Filippo Miraglia, consigliere nazionale di Arci responsabile dell’Immigrazione, si è espresso contro il nuovo codice per le Ong: “È una resa alle destre europee, già sperimentata da Minniti, un modo per criminalizzare chi salva vite umane al posto degli Stati che non vogliono farlo, un meccanismo a cui ricorrono regimi autoritari”.

«Condivido in pieno. E su questo tema la sinistra ha perso troppi treni e deciso di scimmiottare, addolcendo un po’ il tiro, il modo di fare della destra. Se facessero meno convegni per interrogarsi su dove sta la sinistra e agissero di più, la sinistra tornerebbe ad essere ben visibile agli occhi della gente».

Dalla bozza della legge di bilancio 2022 non sembra emergere una grande sensibilità da parte delle forze parlamentari nei confronti del Terzo settore e del sociale.

«In questo momento bisogna riconoscere, per onestà, che le opposizioni non hanno i numeri per modificare gli orientamenti del governo. La bozza di bilancio, tuttavia, denota una distanza siderale dai problemi reali del Paese: pensare che il problema dell’Italia sia il reddito di cittadinanza, è una cosa che fa ridere soltanto a citarla. La cosa preoccupante è che quella bozza mostra la debolezza delle proposte del centrodestra, l’incapacità di risolvere i problemi reali delle persone. Il Rapporto Caritas parla di sei milioni che hanno raggiunto la soglia della povertà, e 1.400.000 sono minori. Invece siamo qui a discutere dell’uso del Pos o di problemi minimali».

Si fa un gran parlare dei giovani, ma il loro protagonismo reale nei fatti è ostacolato. E loro sono più attratti dal mondo del volontariato che dalla politica.

«È così da un po’ di anni. L’associazionismo, il volontariato e l’impegno sociale sono tra gli elementi che danno maggior soddisfazione. Io vengo da Genova, che purtroppo negli ultimi anni è stata invasa dalle acque straripanti a causa del dissesto idrogeologico. Ci si stupisce sempre dei cosiddetti “angeli del fango”. In realtà questi ragazzi non vivono sottoterra tutto l’anno: non li vede nessuno perché pochissimi danno loro l’opportunità di rendersi utili. Pensiamo all’esperienza di “Fridays for future”. Dobbiamo trovare tutte le risorse necessarie e aiutarli a non farli scappare dalle loro città. Nella mia esperienza, non ho mai trovato qualcuno contento di dover lasciare la propria terra per cercare la fortuna altrove».

Ci parli delle vostre battaglie per la parità di genere.

«Tra le giovani generazioni, a mio avviso, la differenza esiste poco o niente. Il vero problema è che il nostro è un Paese ancora molto maschilista nel linguaggio, nelle procedure e anche nella sua capacità di mettere le persone nelle condizioni migliori per sentirsi utili e svolgere al meglio il loro lavoro e la loro vita».

Di che cosa si avverte maggiormente bisogno nel Paese, in quest’ultimo scorcio del 2022?

«Se penso agli ultimi due anni e a quello che abbiamo passato, dico che non dobbiamo cancellare questa esperienza. Nel bene e nel male. Nelle comunità c’è bisogno di non sentirsi soli, abbandonati dallo Stato e dalle istituzioni. Purtroppo sta diminuendo la presenza dello Stato e la sua capacità di rispondere ai bisogni delle persone».

Massa, ci siamo detti davvero tutto?

«Sì. Anzi no. Tutto ciò di cui ho parlato in questa intervista ha molto a che fare con la cultura, che non dev’essere solo l’organizzazione di eventi, bensì la capacità di vedere il mondo con occhi diversi. Dobbiamo renderla accessibile a tutti ed evitare che la cultura ritorni a essere una questione elitaria. Allo stesso tempo, bisogna fare in modo che ci sia molta più produzione culturale».

Credits: foto C. Archibugi e Ch. Mantuano

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