Francesco Occhetta

Per una giustizia che ripari il dolore delle vittime

di Redazione

Dialogo col docente alla Pontificia Università Gregoriana e segretario della Fondazione vaticana Fratelli tutti, autore de "Le radici della giustizia": «La sfida è quella di sostituire la spada della giustizia che è la vendetta e la pena esemplare con l’ago e il filo della riparazione». Mettendo al centro il dolore delle vittime e non la vendetta e il mito della "pena esemplare"

Francesco Occhetta, gesuita dal 1996, insegna alla Pontificia Università Gregoriana di Roma ed è segretario della Fondazione vaticana Fratelli tutti. Dopo la laurea in Giurisprudenza a Milano, ha conseguito la licenza in teologia morale a Madrid e il dottorato in teologia morale presso la Pontificia Università Gregoriana. È specializzato in diritti umani all’Università degli studi di Padova. Ha completato la sua formazione a Santiago del Cile. Giornalista professionista dal 2010 ha ideato "Comunità di Connessioni", un percorso di formazione per giovani all’impegno sociale e politico e fondato una testata editoriale. Per San Paolo da poche settimane è uscito "Le radici della giustizia", il suo ultimo libro, che ha un sottotitolo molto pratico: "Vie per risolvere i conflitti personali e sociali". Il nostro dialogo parte proprio da qui per approdare al designo di un nuovo modello di giustizia. Come scrive a pagina 61: «Il modello della giustizia riparativa capovolge la concessione classica di giustizia e pone al centro dell'ordinamento il dolore della vittima, la pena da espiare umanamente per l'autore del reato, l'incontro delle parti per ricostruire le ragioni dell'accaduto, la responsabilità della società di dare un futuro a chi improvvisamente se lo è visto negato».

Da dove nasce l’esigenza di scrivere un libro proprio in questo tempo che porta come sottotitolo: "vie per risolvere i conflitti personali e sociali"? Abbiamo perso la bussola:una volta si diceva che i conflitti aiutano a crescere. Non è più così?

Questo volume nasce perché il tema della giustizia lo insegno all’Università Gregoriana e poi perché per anni ho svolto servizio nelle carceri di San Vittore a Milano, di Bucaramanga in Colombia in cui erano rinchiusi i guerriglieri, e nelle carceri di Arica in Cile costruite nel deserto di Atacama per gli ergastolani. In questi anni ho potuto ascoltare e dialogare con operatori di giustizia e detenuti, direttori delle carceri e cappellani, famiglie e volontari. Ho così imparato che credere nella giustizia è una forma di amore sia quando si è soli o in pochi a crederlo sia quando si viene fraintesi.
Alla fine del Novecento quasi nessuno osava introdurre un paradigma diverso di giustizia rispetto a quello retributivo, esistevano solo alcune voci fuori dal coro come quelle del cardinale Carlo Maria Martini, da alcuni biblisti come padre Pietro Bovati e da pochi altri studiosi. Improvvisamente quei semi di cultura, dopo essere stati sepolti hanno fatto nascere i primi steli di vita. Così con questo volume vorrei dire ai giovani di non smettete di credere nella giustizia per diventare persone giuste.

Fin dalle prime pagine parli delle responsabilità di un giornalismo giustizialista come fattore di crisi del modello di giustizia. Quali sono queste responsabilità e come rimediare?

La costruzione della giustizia inizia dalle parole che si scelgono: se sono ponti o sono pietre, se ricostruiscono la verità dei fatti e sanno distinguere il male commesso dalla persona che lo ha commesso oppure se condannano prima delle sentenze dei giudici. Basta un cattivo articolo o un servizio televisivo mal intenzionato per rovinare la reputazione a persone innocenti, stigmatizzare nel reato le persone che lo hanno già espiato oppure costringere intere famiglie a lasciare le loro terre per la vergogna o per proteggersi. Eppure la deontologia del giornalista regola con molto rigore il tema. La sfida è quella di sostituire la spada della giustizia che è la vendetta e la pena esemplare con l’ago e il filo della riparazione.

Tutte le raffigurazioni della giustizia si riferiscono a Dike, la figlia mitologica di Giove e di Temi, dea delle leggi e dei tribunali: il volto austero e duro, il globo nella mano sinistra simbolo del suo dominio e la spada nella mano destra con cui applica le sue sentenze. Sono immagini così tanto sedimentate da impedirne di immaginarne altre. Invece ne esistono di alternative, più miti e gentili. In uno degli affreschi più famosi al mondo, l’Allegoria del Buon Governo (1338-1339) in cui la giustizia è parte di un disegno più grande, indispensabile per far crescere la vita degli uomini e delle donne, è nutrita dalla sapienza e la sua azione genera la concordia. Oppure troviamo l’immagine della giustizia che simboleggia una donna con ago e filo che cuce le relazioni che si fratturano nelle nostre famiglie, nel quartiere, in società e nella vita politica.
Un giornalismo in grado di narrare le gesta silenziose di queste realtà che cuciono e tengono insieme il tessuto sociale aiuterebbe la coesione sociale e il servizio pubblico.

Come nasce il suo impegno da volontario nelle carceri e cosa le ha insegnato e continua a insegnarle questa esperienza?

Fin da ragazzo avvertivo che era un mondo complesso e difficile, ricordo che scrivevo a un mio vicino di casa che era detenuto. Avevo capito come una lettera poteva cambiare la vita. Poi lo studio e la passione per il diritto penale fino a scegliere di prestare servizio in carcere.
Non ci si abitua mai, entrare in un carcere è come scendere nelle catacombe di una città dove persone e storie sono allontanate dalla vista per fare finta che non esistano. È il modo “democratico” per rimuoverle dall’inconscio sociale. Nella mia memoria è rimasto scolpito ogni attimo vissuto nelle carceri in cui ho prestato servizio. Prima il rumore del cancello, poi il saluto agli agenti, i varchi da attraversare, il rumore delle chiavi sulle porte blindate, i lunghi corridoi da percorrere, l’aria rarefatta, l’illuminazione artificiale, i pensieri che si alternano alle paure, fino all’incontro con le detenute e i detenuti. Eppure approfondire la situazione in cui versano le carceri rappresenta la cartina al tornasole per misurare il grado di giustizia di una società su cui pesa il noto monito di Voltaire: «Non fatemi vedere i vostri palazzi, ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione».

Lei ha titolato il primo paragrafo del secondo capitolo "I significati della giustizia nella bibbia". Quali sono questi significati?

Il concetto di giustizia nella Bibbia è legato alle relazioni che nella vita si spezzano. Essere giusto o ingiusto è dato non tanto dall’obbedienza a una norma, ma dalla capacità di rispecchiare nel volto dell’altro la propria dimensione di persona giusta. L’“altro” nella Bibbia è innanzitutto Dio, ma è anche il fratello, il prossimo, l’avversario, un uomo o una donna che esigono il riconoscimento della loro dignità.
In Israele chi denunciava il falso rischiava di essere punito con la pena stabilita dalla legge quando il processo stabiliva l’innocenza dell’accusato. Accusare un terzo innocente di tradimento o abuso, furto o concussione, significava dover espiare la pena prevista per quel reato. Anche l’onere della prova spettava alla parte che denunciava, non era a capo di chi subiva la denuncia.
Sembra un paradosso ma proprio la Genesi racconta storie di conflitti violenti tra fratelli come quelli tra Caino e Abele, Isacco e Ismaele, Esaù e Giacobbe, Giacobbe e lo zio Labano, Giuseppe e i suoi fratelli.
Non si nasce giusti per natura, lo si diventa per cultura, nella Bibbia la fraternità non è data biologicamente, è un punto di arrivo, non ha nulla a che vedere con i legami di sangue, l’Enciclica Fratelli tutti definisce questo processo da costruire con il nome di “fraternità”.
Il cammino da compiere è lungo e complesso: il logos biblico inizia con l’odio verso il fratello e termina con l’amore per il prossimo. Una tensione irriducibile che rappresenta un punto di partenza e un (possibile) punto di arrivo.
Alcuni princìpi biblici che ricostruisco nel volume possono essere così schematizzati: 1. Non giudicare ma rieducare il colpevole. 2. Responsabilizzare la società a coltivare la terra macchiata dal sangue del fratello altrimenti il frutto non crescerà più per nessuno; 3. nel male che si compie c’è già la propria condanna; 4. l’espiazione ha bisogno di tempo e di esperienze che permettano al reo di comprendere il male che ha fatto senza doverlo più giustificare o mascherare.

Lei punta molto sul principio della giustizia riparativa: come funziona questo modello e come può essere applicato in Italia dopo la riforma Cartabia?

La giustizia riparativa capovolge il modello classico di giustizia, colloca al centro il grande dimenticato dei Codici che è la vittima con il suo enorme dolore, chiede al reo di restituire – concretamente o simbolicamente – ciò che ha spezzato, invita la società civile a non custodire questo incontro senza considerare le carceri una discarica sociale, introduce la figura dei mediatori che favoriscono l’incontro e l’emergere della verità. Le vittime vengono seguite a partire dalle conseguenze interiori causate dal danno subito. La signora scippata avrà paura di uscire di casa, i clienti truffati dalla loro finanziaria avranno paura a fidarsi, i condomini trascurati dall’amministratore aumenteranno le tensioni tra loro, la ragazza violentata sarà toccata nella sua capacità di amare, la persona a cui è stata rovinata la reputazione sarà bloccata dalla vergogna.
Al reo invece è chiesto di prendere coscienza del male fatto per poterlo integrare e risarcire. I mediatori attivano un "processo" in cui più che concentrarsi sull’oggetto del reato si pongono al centro i soggetti del reato, al punto che cambia la stessa epistemologia giuridico-criminologica: il reo, invece di essere "responsabile di" (una truffa, una violenza, un abuso, ecc.), è "il responsabile verso" qualcuno.
Ricordo quando negli anni in cui prestavo servizio nel carcere di San Vittore permettevo agli autori di reato di incontrare le loro vittime. La pena non diminuiva cambiava il senso dell’espiazione. Il denaro non è sufficiente a risarcire il danno causato. Quando infatti viene ucciso un figlio, si subiscono discriminazioni sul posto di lavoro, si divorzia, si è subito un abuso ecc., il denaro non colma il dolore provato. Qualche anno fa avevo assistito a una mediazione in cui la vittima aveva chiesto un risarcimento di 80mila euro ma al termine del percorso ne ha voluti 2 mila euro, i restanti 78 mila rappresentavano ciò che occorreva per risarcire qualcosa d’altro. Il ruolo della mediazione aiuta a comprendersi.

Venendo alla riforma?

La riforma sostenuta dal Ministro della giustizia, Marta Cartabia, approvata nel 2021 e la sua attuazione nel 2022 rappresenta un prima e un dopo per la giustizia riparativa in Italia che si fonda sui princìpi di partecipazione attiva e volontaria delle parti e sul coinvolgimento della comunità. Lo spirito della riforma richiede allo Stato di sottrarsi evitando di infliggere una pena in forma autoritaria e di stabilirla volontariamente è una cultura della pena che promuove comportamenti attivi che permettono anche nell’esecuzione carceraria, una sorta di rieducazione e di risocializzazione.

Il procedimento è gratuito e senza preclusioni di reato, sarà possibile per ogni stato e grado del procedimento penale, nella fase esecutiva della pena o dopo l’esecuzione della stessa. È in questa scelta che risiede il cambiamento: ai programmi riparativi possono partecipare la vittima del reato, l’autore dell’offesa, i familiari, gli enti, le associazioni e i singoli cittadini che vi abbiano interesse. Il consenso alla partecipazione deve essere personale, libero, consapevole, informato, espresso in forma scritta e sempre revocabile (art. 48). Insomma una piccola grande rivoluzione culturale.

Tuttavia la classe politica è purtroppo ancora divisa, teme di perdere voti, se fosse lungimirante invece capirebbe che ne guadagnerebbe moltissimi perché tutti desiderano una giustizia che invece di ripagare il male con altro male permette a chi sbaglia e a chi ha subito un nuovo avvenire.

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