«Le droghe sono tutte pericolose? Guardate, la presidente del Consiglio dei ministri, Giorgia Meloni, non ha detto una bugia. Ovviamente, alcune sono più pericolose e nocive di altre, ma non bisogna mai prenderle sottogamba. La verità, piuttosto, è un’altra: non possiamo limitarci a sopprimere, dobbiamo aiutare i nostri ragazzi». Don Ettore Cannavera è un prete sardo che si spende da una vita per gli emarginati, in particolare per i più giovani. Nel 1994 ha fondato la comunità La Collina, nel territorio di Serdiana (Cagliari), dove ha accolto tantissimi minori a cui il magistrato di sorveglianza ha concesso una misura alternativa alla detenzione. Affronta l’intervista per Vita da una prospettiva privilegiata, partendo dalle recenti esternazioni della presidente Meloni sull’uso di sostanze stupefacenti e dal giro di vite nelle sanzioni a carico degli automobilisti alterati dall’uso di droghe.
Don Ettore, come sempre l’Italia si è divisa in due: chi ha dato ragione alla premier e chi l’ha attaccata per il suo atteggiamento proibizionista.
«È doveroso fare una premessa, per evitare fraintendimenti. Io parto da una visione antropologica e mi chiedo: chi è l’essere umano? Ho una visione positiva, in caso contrario dovrei prendermela con il Padreterno. In ciascuno di noi c’è una propensione al bene e alla giustizia. Con coloro che sbagliano, commettono reati di vario genere o pericolose infrazioni alla guida di un’auto, la società di solito interviene con la repressione, cioè punisce chi ha sbagliato. E va bene. Però, continuando così, aumenterà il numero di quanti hanno bisogno di essere puniti. Il problema che io pongo è di carattere pedagogico, educativo. A meno che non si abbia l’idea che una persona fa del male perché nasce sbagliata e tendente al male. Io la penso diversamente».
È la solita tentazione di dividere il mondo in buoni e cattivi.
«Chi sbaglia ha una carenza a monte. Perché faccio del bene? I miei genitori erano contadini, non possedevano una grande cultura ma hanno educato me e i miei fratelli al bene, alla giustizia, agli affetti, al rispetto. E questo vale per tutti: nasciamo in un contesto e cresciamo di conseguenza. Non mi basta che uno dica: i ragazzi hanno sbagliato, perciò li reprimiamo. Per diminuire la repressione, che invece sta aumentando, dobbiamo rivedere il sistema educativo che abbiamo: familiare, scolastico, ricreativo, sportivo. Noi non diamo ai ragazzi la possibilità di essere soddisfatti della loro vita. E qui cito i talenti del Vangelo: c’è chi ne ha dieci, chi cinque, chi uno. A ciascuno dobbiamo dare la possibilità di realizzare i propri talenti: chi ha grandi capacità intellettive farà una certa carriera, ma chi ha un solo talento dev’essere aiutato a metterlo a frutto. Magari andrà a zappare la terra. Oggi invece, sempre più, pensiamo alla punizione, alla condanna. Dovremmo puntare il dito più verso gli adulti che sui minori».
Alcuni ragazzi prendono strade sbagliate, altri no. Questione di fortuna, di casualità?
«Ecco, questa è una domanda che dovremmo porci noi adulti, con grande attenzione. Quand’ero adolescente, 50-60 anni fa, era tutto diverso. Oggi viviamo tempi più complessi e difficili di allora. Ma non facciamo un’azione educativa e culturale nei confronti di chi ha una responsabilità: mi riferisco ai genitori, agli insegnanti, ai preti e a tutti coloro che hanno a che fare con i ragazzi. Ci occupiamo di loro soltanto quando scopriamo che hanno commesso un reato, spesso a 15-16 anni. Talvolta già a 12 anni. Finiscono non solo a spacciare sostanze stupefacenti ma anche a farne uso. Pensate che le scelgano loro in forma autonoma? No, è una proposta dal contesto in cui vivono. “Ragazzino, non hai niente da fare? Dai, spaccia un po’ di sostanze per me. Poi ti darò due o tre dosi per te”. Così entrano in quel mondo. Lo stesso vale per altri reati, piccoli e grandi».
Nei giorni scorsi c’è stato un inasprimento delle sanzioni previste dal Codice della strada. L’ennesimo incidente mortale causato da giovani “su di giri” ha suggerito questo provvedimento.
«Perfetto, puniamoli. E puniamo anche i ragazzi (e non solo loro, ovviamente) che usano il cellulare mentre sono alla guida. Ma guardando soltanto alla repressione, presto finiremo col punire il 50% dei cittadini italiani. Pensiamo di risolvere così il problema? Io credo che occorra fare un ragionamento di educazione e prevenzione perché ci sia meno bisogno di punire. È il ragionamento che faccio sempre quando parlo con i genitori e i loro figli adolescenti. Quando mi portano bambini di 6-7 anni che hanno spacciato droga e mi chiedono “Che facciamo, li puniamo?”, io rispondo: “No, li educhiamo”. Affinché trovino soddisfazioni in altro, non nella sostanza».
Bisognerebbe intervenire sin dalla tenera età. Ma i disagi spesso nascono proprio in famiglia.
«È vero. Ma il diritto alla soddisfazione, a essere contenti della propria vita, è un diritto fondamentale. Noi ci realizziamo in quel che facciamo, in caso contrario cercherei soddisfazione guardandomi attorno, prendendo ciò che il mondo mi offre. Non basta punire chi sbaglia, chi ha una devianza o non rispetta le regole del buon vivere, il problema è più a monte. Altrimenti mi dimostrino che alcuni sono nati verso la devianza e la criminalità, mentre altri verso il bene. Non funziona così. Certo, io ho una visione che si basa sulla Bibbia e su quanto ci ha insegnato Gesù Cristo, ma queste cose le dicevano anche Socrate e i più grandi filosofi greci dell’antichità. E lo ripetono gli psicologi di oggi».
Suggerisce, dunque, di educare gli educatori?
«Non c’è dubbio, lo dico da tanti anni. Perché è difficile fare i genitori, gli insegnanti, i preti. I ragazzi prendono gli adulti quali modelli di riferimento e agiscono di conseguenza. E talvolta l’esempio negativo viene da persone di potere o comunque delle istituzioni. La nostra cultura ci ha abituati sovente a pensare: “Ti riconosco perché sei bravo in quella cosa”. Ma a molti ragazzi non abbiamo dato la possibilità di essere altro. Vedo in certi ambienti degradati bambini di seconda o terza elementare che spacciano per essere accettati dai ragazzini più grandi. Noi dobbiamo proporre loro altro, per farli sentire riconosciuti, apprezzati, stimati, considerati. In certi quartieri, il 25 per cento dei ragazzi non va più a scuola. Sono dati che fanno tremare. Ma i veri bocciati sono certi insegnanti, non quegli adolescenti sbandati. Se un ragazzino guida senza patente, noi adulti siamo tutti responsabili: dal politico all’ultimo nonno. Tutto parte dal processo di crescita e sviluppo educativo di noi adulti. In qualsiasi ruolo. Noi preti non siamo certo esenti da colpe. E neppure voi giornalisti».
Forse bisogna trovare un maggiore equilibrio tra la severità della prima parte del Novecento all’eccessiva permissività di molti genitori di oggi.
«Non ho dubbi in proposito, è una contraddizione che emerge da tempo. Lo sottolineo sempre quando battezzo un bimbo: che cosa offriamo a un bambino che ha pochi mesi? Quale sarà il suo futuro? Cari genitori, questa è la responsabilità che dovete assumervi. Non potete venire a piangere quando si droga a 15 anni. Altrimenti la genitorialità si riduce a un puro atto sessuale. Dobbiamo proporre un certo stile di vita al nostro figlio, in cui si senta realizzato, apprezzato. Se noi non lo apprezziamo nel bene, nella scuola, lui cercherà il riconoscimento altrove. Nel male. Nello spacciare, nel drogarsi, nel bere alcolici o superalcolici, nel rubare. I genitori possono avere un rapporto amicale, un atteggiamento affettuoso, ma non sono e non devono essere amici. Sono ruoli completamente diversi. Non basta mettere al mondo una creatura, nutrirla, vestirla: devo pure darle gli strumenti per crescere come persona responsabile, con la capacità di usare bene la sua vita e i suoi talenti».
È quindi necessario un cambio di rotta epocale sotto il profilo pedagogico. Cosa non facile da compiere.
«Da qualche parte bisogna pur cominciare. Non aiutiamo i bambini e i ragazzi a crescere, se compriamo tutto ciò che desiderano. Dobbiamo insegnare loro il senso della vita, della relazione, mostrare la direzione in cui procedere. Ma chi aiuta i genitori? Io mi sono sempre occupato dei ragazzi, ma se potessi oggi cambierei per occuparmi degli educatori: genitori, preti e insegnanti su tutti. Una comunità dedicata a loro, ovviamente non residenziale. Poveri genitori, spesso costretti a fare più di un lavoro per mandare avanti la famiglia. Però ci sono anche quelli che vivono per il lavoro. E quando senti un ragazzo di 15 anni confessare di aver commesso un reato per attirare l’attenzione dei suoi genitori, che vedeva pochi minuti al giorno, capisci il vuoto che avvertono intorno alcuni di loro. Un sedicenne, da poco, mi ha detto: ho rubato ma non avevo bisogno di quella roba. Volevo far capire a mio padre e mia madre che mi avevano lasciato solo per pensare a se stessi. È un messaggio terribile. Ma chi aiuta questi adulti a comportarsi adeguatamente con un figlio adolescente?».
Tirare fuori il bene che c’è in ciascuno di noi. Facile a dirsi, un po’ meno a farsi.
«Chi è riuscito a non prendere pericolose deviazioni nel percorso della propria vita, lo deve soprattutto alla buona educazione ricevuta dai genitori. Tutti sbagliano, naturalmente, ma se si viene aiutati a mettere a frutto le proprie capacità, si riesce ad andare avanti più correttamente».
In molti sostengono che è sbagliato mettere sullo stesso piano tutte le droghe.
«Sono quelli che parlano di “innocente spinello”, dimenticando o fingendo di non sapere che lo spinello di oggi è molto più pesante di quello che si fumava negli anni Sessanta. Ovviamente, ci sono sostanze molto più potenti e pericolose. In generale, credo che manchi un’adeguata informazione. Occorre lavorare di più con i ragazzi e informarli sui rischi che producono queste droghe, e anche l’alcol. Far capire che cosa possiamo introdurre nel nostro corpo e averne rispetto, consapevolezza. Dobbiamo amarlo. Cominciamo educandoli ad una sana alimentazione. Però non basta: bisogna dare loro anche valide alternative. E poi aiutarli a fare del bene: nello sport, nella cultura, nel volontariato. È un lavoro impegnativo, ma fa parte delle responsabilità che dobbiamo assumerci. Tutti».
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