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Le Ong sono state rimosse chirurgicamente dal Mediterraneo

Con Open Arms approdata a Barcellona per lo sbarco dei 60 naufraghi salvati nell’ultima operazione di soccorso, nelle acque internazionali al largo della Libia non rimane più nessuna nave umanitaria e nessun soggetto non governativo a testimoniare ciò che sta accadendo, eppure le persone continuano a partire, il numero delle vittime aumenta e anche il Consiglio d'Europa condanna l'ostruzionismo dell'UE nei confronti delle Ong in mare

di Ottavia Spaggiari

Alla fine, nel Mare Nostrum tra Italia e Libia non è rimasto nessuno a soccorrere chi rischia la vita cercando di fuggire dall’inferno libico e raggiungere l’Europa. È stata una rimozione chirurgica di ogni soggetto non governativo, iniziata un anno e mezzo fa con una campagna di screditamento nei confronti delle Ong impegnate in operazioni di ricerca e soccorso nel Mediterraneo e culminata con la chiusura dei porti italiani, a inizio giugno. Un braccio di ferro tra Italia, Malta ed Europa che ha reso il nostro Paese protagonista di ripetute violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani.

Un numero record di vittime

Nessuna nave umanitaria si trova attualmente nelle acque internazionali al largo della Libia. Un’assenza che si è tradotta nel tragico bilancio record delle persone morte nel Mediterraneo nell’ultimo mese. Secondo una stima dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi) tra il 1 giugno e il 2 luglio di quest’anno circa una persona su dieci partita dalla Libia ha perso la vita nel tentativo di raggiungere l’Europa via mare. Sono infatti almeno 679 le vittime annegate dal 1 di giugno, una cifra che, purtroppo, è da considerare per difetto, poiché comprende solo il numero di perdite che si è riusciti a registrare.

Peter Martin, volontario dell’Ong tedesca Sea-Eye, ha raccontato su New Statesment della notte difficilissima dello scorso 18 giugno quando l’equipaggio di cui faceva parte, seguendo l’ordine di non interferire con la cosiddetta Guardia Costiera libica, ha rinunciato a soccorrere un’imbarcazione in difficoltà con a bordo circa 120 persone che però non sarebbero state salvate da nessun altro, visto che il mercantile che era stato inizialmente incaricato di intervenire non l’ha fatto. «La campagna di criminalizzazione delle Ong ha funzionato. Eravamo una nave di salvataggio che aveva paura di fare operazioni di salvataggio. Ci hanno intimidito e così ci siamo allontanati mentre, con tutta probabilità, 120 persone sono annegate». Secondo il volontario quelle 120 persone non sarebbero nemmeno state contate nel bilancio delle 220 vittime redatto da Unhcr di quella settimana, definita come la più terribile del 2018.

Dove sono le navi umanitarie

L’ultima imbarcazione attiva, quella dell’Ong spagnola Proactiva Open Arms è approdata ieri mattina a Barcellona portando le 60 persone salvate venerdì scorso al largo della Libia, avendo ricevuto l’ok a procedere dalla cosiddetta guardia costiera libica, in un Place of Safety (luogo sicuro), dopo che l’Italia aveva annunciato la chiusura dei porti venerdì scorso.

Il Ministro delle Infrastrutture e dei trasporti, Danilo Toninelli aveva annunciato che: «In ragione della nota formale che mi giunge dal Ministero dell'Interno e che adduce motivi di ordine pubblico, dispongo il divieto di attracco nei porti italiani per la nave Ong Astral, in piena ottemperanza dell'articolo 83 del Codice della Navigazione».

Per capire esattamente su quali basi è stata resa esecutiva questa decisione, il giornalista Andrea Tornago ha reso noto di aver inviato una richiesta di accesso agli atti per “ottenere il provvedimento con cui il 29 giugno il ministro avrebbe negato accesso a Open Arms al porto di Pozzallo”, ma di non avere ancora avuto risposte a riguardo.

Con la nave di Open Arms a Barcellona, nelle acque internazionali al largo della Libia non rimane più nessuna imbarcazione umanitaria.

Aquarius è al momento ancora ferma a Marsiglia, dove è stata costretta a dirigersi per il rifornimento e il cambio di equipaggio dopo che, il 26 giugno scorso, Malta, abitualmente utilizzata come base dalla nave gestita da SOS Mediterranee e da Medici senza frontiere e dalle altre navi umanitarie, aveva respinto l’ingresso.
«L’Aquarius rimane nel porto di Marsiglia, per seguire lo scalo abituale. Viste le attuali politiche in mare e la criminalizzazione delle navi di ricerca e soccorso delle Ong, ci obblighiamo a prendere un po’ di tempo per analizzare la situazione», ha dichiarato via Twitter Medici senza frontiere.


Le imbarcazioni umanitarie delle altre tre organizzazioni rimaste in mare sono invece bloccate a La Valletta.

Sea-Eye è infatti ferma a Malta dopo che le autorità olandesi hanno chiesto a Seefuchs, il peschereccio dell’Ong, di rimuovere la bandiera olandese, mettendone in discussione la legittimità di utilizzo, nonostante i documenti dell’imbarcazione, che naviga da quasi due anni, siano stati approvati dall’Agenzia federale marittima e idrografica tedesca (BSH) e prima d’ora non avessero mai sollevato dubbi. «Un chiaro tentativo di tenerci lontani dall’acqua», dicono dall’Ong che dichiara però l’intenzione di ripartire per una nuova missione il prima possibile, «non appena le cose saranno chiarite».

Se infatti trovare un “place of safety” disposto ad accogliere le navi umanitarie è ormai difficilissimo, per chi fa ricerca e soccorso è diventato altrettanto difficile uscire dal porto e tornare in acque internazionali.

Dopo sei giorni di navigazione e un infinito rimpallarsi delle responsabilità tra Italia e Malta, la nave dell’Ong tedesca Lifeline è riuscita portare a La Valletta i 224 naufraghi salvati, ma l’imbarcazione è stata bloccata e l’equipaggio sottoposto ad un’investigazione da parte delle autorità Maltesi.
Domenica, anche a Sea-Watch è stato negato il permesso di lasciare il porto, come ha spiegato l’Ong in un comunicato: « Sea-Watch ha ricevuto risposta negativa dall’autorità portuale di Malta la quale riferisce tramite il nostro agente che “in base alle attuali istruzioni, la nave Sea Watch 3 non è autorizzata a partire dal porto.” La spiegazione addotta è la seguente: “La situazione e lo status della nave sono in corso di revisione e torneremo sulla questione a tempo debito”».

L’Ong ha sottolineato che «A seguito del rientro dalla sua ultima missione, la Sea-Watch 3 ha stazionato a Malta per un processo di revisione e ispezione in programma da mesi che è stato superato con successo con il passaggio di classe della motonave. La Sea-Watch 3 risultava comunque già regolarmente iscritta al Registro nazionale delle navi battenti bandiera olandese. L’organizzazione è inoltre membro della Federazione Internazionale per il Soccorso Marittimo IMRF».

L’ultimo tassello: la rimozione dell’aereo di avvistamento e soccorso Moonbird

L’Ong tedesca Sea-Watch ha annunciato mercoledì notte che anche a Moonbird, velivolo utilizzato per l’avvistamento delle imbarcazioni in difficoltà, è stata negata l’autorizzazione di volare. L’aereo, gestito dalla Sea-Watch e dall’organizzazione Swiss Humanitarian Pilots Initiative (HPI) e sostenuto dalla Chiesta evangelica tedesca, ha contribuito all’avvistamento e al salvataggio di circa 20mila persone.
Il comandante, Ruben Neugebauer, ha raccontato che le autorità maltesi non hanno comunicato a Sea-Watch le ragioni o le motivazioni legali per cui al velivolo sia stato negato il permesso di volare, dopo che da un anno e mezzo a questa parte è sempre decollato da Malta, operando in collaborazione con le autorità maltesi e con il Centro di coordinamento della Guardia costiera di Roma.

«Ovviamente non devono esserci testimoni oculari indipendenti in grado di documentare le violazioni dei diritti umani», ha dichiarato Neugebauer a Malta Today. «Il pubblico europeo non deve sapere come sia barbara questa politica di isolamento. Non devono esserci prove di come le persone stiano annegando in mare e di come la cosiddetta Guardia Costiera Libica si stia comportando».

Proprio oggi Dunja Mijatović, commissaria per i diritti umani del Consiglio d'Europa, l'organizzazione internazionale che ha lo scopo di promuovere la democrazia, i diritti umani e l'identità culturale europea ha condannato le politiche di respingimento: «Purtroppo diversi Paesi membri del Consiglio d'Europa stanno ostacolando il lavoro delle Ong, il che mette a rischio la vita di molte persone. Quando gli Stati membri coordinano delle operazioni di soccorso, dovrebbero fare pieno utilizzo di tutti gli strumenti di ricerca e soccorso disponibili, incluse le navi delle Ong. Le autorità di coordinamento dovrebbero assicurare che le istruzioni date durante le operazioni di soccorso rispettino pienamente i diritti umani dei migranti salvati, evitando che siano messi in situazioni in cui il loro diritto alla vita sia minacciato, o in cui siano soggetti a tortre, trattamenti degradanti o disumani, o all'arbitraria privazione della libertà». Un evidente riferimento a ciò che avviene in Libia, Paese che la scorsa settimana ha dichiarato ufficialmente la propria SAR zone, zona di ricerca e soccorso ma che, secondo il diritto umanitario, non può essere considerato POS (Place of Safety).

Foto: Hermine Poschmann (Lifeline)

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