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La Libia ha dichiarato la sua zona SAR: lo conferma l’IMO

Tripoli definisce una propria area di ricerca e soccorso riconosciuta dall’Organizzazione Marittima Internazionale. Una svolta che complica ulteriormente la situazione, rendendo ancora più incerto il futuro di chi è intrappolato in Libia e il ruolo delle navi umanitarie. Diverse le domande, prima tra tutte: come si può affidare la responsabilità del soccorso a un Paese che non può essere considerato “Place of Safety”?

di Ottavia Spaggiari

Alla fine la zona di Search and Rescue (SAR) libica è stata dichiarata ufficialmente. La notizia arriva dall’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO) che, appena lunedì, aveva dichiarato in modo inequivocabile a vita.it che non esisteva alcuna SAR libica, aggiungendo però che «L’Italia e la Commissione Europea stanno sostenendo degli sforzi di capacity-building per stabilire dei servizi SAR in Libia».

La svolta arriva questa mattina: «Il Governo libico adesso ha inserito delle informazioni rilevanti nel GISIS Global SAR Plan (la directory dell’IMO relativa al piano SAR globale n.d.r.)», scrive in un’e-mail l’ufficio media dell’IMO. «Tra queste vi è anche la definizione di una regione di ricerca e soccorso».

Il 12 giugno scorso, contattata da Vita.it, l’International Maritime Organization aveva confermato che era stata inserita l’indicazione relativa ad un’autorità nazionale libica nel piano globale di ricerca e soccorso dell’IMO. Mancava però un’informazione fondamentale: la presenza di un MRCC libico, cioè di un Centro di coordinamento dei soccorsi, il corrispettivo, per intenderci, del nostro MRCC di Roma che negli ultimi ha condotto il coordinamento e supervisionato i soccorsi nelle acque internazionali al largo della Libia.

Adesso quell’informazione compare: dalle coordinate risulta essere presso l’aeroporto internazionale di Tripoli. Si tratta in realtà di un Joint Rescue Co-ordination Centre (JRCC), ovvero di un centro di coordinamento gestito da personale appartenente a forze militari o autorità civili, diverse.

L’ IMO ha dichiarato di «non avere commenti da fare, la Libia ha fornito le informazione al database GISIS. Chiunque può registrarsi e vedere i dettagli. Secondo la convenzione SOLAS, ogni governo contraente si impegna a fornire all’IMO le informazioni relative ai servizi SAR e i piani di modifica.» L’Organizzazione Marittima Internazionale si pone dunque, essenzialmente, solo come testimone di ciò che accade, registrando le informazioni che riceve.

Rimangono però molte questioni aperte. Prima di tutto è da capire la legittimità della creazione di una zona di ricerca e soccorso libica. Lo scorso maggio, il Tribunale del Riesame di Ragusa ha rigettato il ricorso della Procura contro il dissequestro della nave dell’Ong spagnola Proactiva Open Arms, che aveva rifiutato di consegnare le persone salvate alle autorità libiche, affermando che “La Libia non è un approdo sicuro quale delineato dal diritto internazionale”. Un tribunale italiano ha dunque stabilito che la Libia non può essere considerato POS (Place of Safety), luogo sicuro in cui trasportare persone salvate dall’acqua. La stessa Lifeline, bloccata in mare per giorni, ha rifiutato di eseguire l’ordine di riportare le persone a Tripoli, proprio perché, come ha spiegato il fondatore dell’ONG ai microfoni di Repubblica, «le persone fuggivano proprio da quel posto», dove, è stato documentato, accade di tutto: uccisioni, torture e stupri.
In secondo luogo, la stessa competenza, correttezza e affidabilità della Guardia costiera libica desta parecchie e fondate preoccupazioni.

Come abbiamo già scritto molte volte, proprio la Guardia costiera libica ha alle spalle una lunga lista di episodi in cui ha utilizzato la forza nei confronti degli equipaggi di navi umanitarie e dei naufraghi stessi. Nell’episodio più drammatico, quello del 6 novembre scorso, oltre 50 persone sono annegate in quella che avrebbe dovuto essere un’operazione di soccorso. Una motovedetta libica era sfrecciata via, nonostante vi fossero ancora diverse persone in acqua, attaccate alle cime dell’imbarcazione.
Inoltre, ’l’8 giugno, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha imposto delle sanzioni individuali a sei persone che gestiscono reti di traffico di esseri umani in Libia, tra questi appare anche il nome di Abd al Rahman al Milad, capo dell’unità della Guardia costiera libica di Zawiyah, finanziata proprio dall’Unione Europea.

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