Welfare

«Decreto dignità? Di Maio per risolvere un problema ne crea tre nuovi»

Secondo le prime indiscrezioni l’intervento che vuole attuare il ministro del Lavoro obbligherebbe tutte le piattaforme della gig economy a trattare i propri riders come dipendenti. Motivo per cui tutte le aziende coinvolte - Deliveroo, JustEat, Glovo, Domino’s e anche Foodora – sono già sul piede di guerra e minacciano di lasciare l’Italia. Vita.it ha fatto il punto con il giuslavorista Ciro Cafiero

di Lorenzo Maria Alvaro

«Lo stato continuo di precarietà e incertezza dei giovani italiani sta disgregando la nostra società. Sta facendo impennare il consumo di psicofarmaci. E facendo calare la crescita demografica. La mia intenzione è garantire da un lato le condizioni migliori per i lavoratori, dall’altro consentire alle aziende di operare con profitto per creare nuovo lavoro». Così Luigi Di Maio ha commentato su Facebook la levata di scudi da parte delle aziende di delivery rispetto alla sua proposta di revisione delle condizioni lavorative dei raiders italiani. Non esiste in realtà una vera bozza di legge. Ma le indiscrezioni che stanno agitando il mondo della gig economy parlano di un provvedimento che da un lato imporrebbe un minimo sindacala della retribuzione e dall’altro equiparerebbe la posizione dei riders a quella di dipendenti. Cosa questo significhi lo abbiamo chiesto all’avvocato giuslavorista e docente del Diritto del Lavoro, Ciro Cafiero.




Cosa pensa della proposta del ministro Di Maio rispetto alle aziende della gig economy?
Prima vorrei fare una premessa…

Prego…
È sacrosanto che i riders abbiano delle tutele. Ne hanno bisogno e sarebbe assurdo non porre rimedio alla loro situazione

Detto questo cosa possiamo dire della proposta del Governo?
Fatta questa doverosa premessa il decreto annunciato da Di Maio che qualifica come lavoratori dipendenti tout court i riders, applicando loro un salario minimo legale ed estendo tutte le Inps e Inail, per risolvere un problema rischia di crearne almeno tre nuovi.

Quali?
Il primo lo chiamerei di “incompatibilità”, il secondo “decrescita della contrattazione collettiva” e l’ultimo che definirei “rischio di disinvestimento”

Cominciamo con lo spiegare il primo
Applicare ai lavoratori della gig economy una disciplina vecchia, pensata per i lavoratori della fabbrica fordista e post fordista, è un errore. Si parla di una disciplina pensata per chi lavorava in luoghi definiti e delimitati e soggetti al potere direttivo. I riders invece non mettono piede in fabbriche o uffici, svolgono attività itinerante e non sono soggetti al potere direttivo che la nostra legislazione del lavoro ha disegnato. Semplicemente quindi la loro figura è incompatibile con le regole cui si vuole ricondurli.

Cosa intende invece per “decrescita della contrattazione collettiva”?
Attiene alla messa in disparte all’autonomia collettiva che il decreto rischia di introdurre. Le parti sociali cioè, con il salario minimo legale, si vedono cancellato con un colpo di spugna il proprio potere contrattuale in ordine alla determinazione della retribuzione giusta e proporzionata. Per semplificare: verrebbe cancellato il senso di una dialettica tra legislatore e parti sociali rispetto al salario. E si tratta di una dialettica proficua e produttiva. In questa vicenda i sindacati dovrebbero invece giocare da protagonisti: spogliarsi della veste di rappresentanti e indossare quella del sindacato di servizi. Fare cioè da intermediari tra le piattaforme e i lavoratori.

Infine c’è il “rischio di disinvestimento”. In cosa consiste?
C’è il rischio concreto che queste piattaforme abbandonino il Paese, lo hanno dichiarato apertamente. Applicare loro questi standard novecenteschi significherebbe irrigidire il nostro mercato del lavoro. Sarebbe un contro senso. E perdere questi posti di lavoro un errore madornale.

Quindi che fare?
La proposta dovrebbero essere quella di non estendere la vecchia disciplina del lavoro subordinato ai riders ma disegnare una cornice a matita leggere tracciata dal legislatore immaginando uno statuto di diritti comuni sia ai lavoratori subordinati sia agli autonomi, agli occasionali che ai co.co.co. Creare cioè uno statuto di tutele applicabili al lavoratore in quanto tale e non subordinare alla tipologia. E questo anche nel segno delle direttive che ci dà l’Organizzazione internazionale del lavoro che parla di “decent work”. Una scelta che potrebbe andare nella direzione dell’esperienza inglese che ha creato ormai da anni delle tutele per i cosiddetti “workers” che sono lavoratore qualsiasi, differenti dagli “employees” che sono invece i lavoratori subordinato. In Inghilterra oggi gli workers godono di alcune tutele minime.

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