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Lago Ciad: viaggio tra i contadini che sfidano la desertificazione

Negli ultimi cinquant’anni il Lago si è prosciugato del 90%, limitando tragicamente l’accesso all’acqua per le migliaia di persone che vivono nella zona. Coopi è l’unica Ong italiana presente sul territorio impegnata nell’assistenza ai contadini locali per garantire la sicurezza alimentare

di Ottavia Spaggiari

«È cambiato tutto. Questo verde prima non c’era. Fino a poco tempo fa qui era solo sabbia». Abbakr Abbami sorride orgoglioso. Con una mano tiene la zappa, con l’altra mostra il campo davanti a sé, a poche decine di metri dal Lago Ciad. È lui il presidente di uno dei 40 gruppi di contadini sostenuti da Coopi in questa zona poverissima dell’Africa, dove le acque del Lago sono state in gran parte divorate dal deserto e, nonostante questo, i frutti della terra, difficilissimi da fare crescere in un clima così arido, sono l’unica fonte di sostentamento per chi vive qui. Negli ultimi cinquant’anni il Lago si è prosciugato del 90% limitando tragicamente l’accesso all’acqua, un processo di desertificazione che sembra inarrestabile: nell’ultimo anno le precipitazioni sono diminuite del 30%. Secondo l’Unicef, la malnutrizione acuta in Ciad, si aggira intorno al 12,2%, mentre quella cronica intorno al 36%.

I cosiddetti “groupement” sono forme associative che riuniscono famiglie diverse per migliorare la produzione agricola, l’obiettivo oltre all’autosufficienza è anche quello di entrare sul mercato. «Ogni gruppo è formato da 25 membri, ognuno rappresentante di una famiglia. Noi abbiamo fornito sementi, utensili, sistemi idrici e una formazione costante a 40 groupement presenti nella zona andando a coinvolgere 1.000 famiglie», spiega Fabio Castronovo, agronomo e responsabile dei progetti di sicurezza alimentare in Ciad. In media ogni nucleo familiare qui è formato da 6 persone, il che significa che il sostegno all’agricoltura locale di Coopi coinvolge circa 6mila persone. Una sfida complessa. «Alcuni groupement si sono formati nell’ambito del progetto, altri esistevano già ma non erano consolidati, le aree coltivate erano ancora molto ridotte», continua Castronovo. «L’accesso all’acqua è un ostacolo ancora grosso. È stata dura. Abbiamo sofferto insieme ai beneficiari, ma iniziamo davvero ad avere dei risultati».

È una lotta quotidiana. Qui facciamo i turni per allontanare gli animali, gli ippopotami e le gazzelle. È successo che arrivassero e distruggessero tutto.

Abbak Khari Tahir, contadino

Il gruppo di Abbami ha scelto di chiamarsi “souffrance”, “sofferenza”, perché mi spiega, «Il lavoro della terra è durissimo, non si raccolgono i frutti senza soffrire», eppure le cose adesso sono migliorate. «Grazie a Coopi adesso abbiamo delle motopompe con cui finalmente siamo riusciti ad irrigare ampie parti di terreno».

Un’innovazione che non ha solo trasformato il paesaggio, ma anche le abitudini alimentari di centinaia di famiglie, in un territorio in cui la maggior parte delle persone fatica a mangiare più di una volta al giorno. «Adesso mangiamo più verdura e abbiamo il mais per fare la farina. Le nostre mogli possono preparare pane e gateau», continua Abbami, spiegando che finalmente riescono anche ad avere prodotti in eccesso che possono essere venduti al mercato. Il ricavo serve per mandare avanti gli orti, per l’acquisto di attrezzi, nuove sementi e la manutenzione del sistema idrico. Un miglioramento faticosissimo ma visibile che mi viene ripetuto da tutti i contadini che incontriamo sulle rive del lago.

Yangou Mbodou Kourtourom è la presidente di un “groupement misto”, composto da contadini, sia uomini che donne. In una terra in cui i matrimoni precoci sono ancora profondamente diffusi, molte famiglie rifiutano di mandare a scuola le bambine e la condizione femminile rimane di forte subordine rispetto all’uomo, Kourtourom è tra le poche donne a ricoprire un ruolo così importante per la comunità.

«Sono stata io ad avere l’idea sette anni fa», mi spiega mentre ci sediamo a lato del suo orto. «Ho riunito gli altri contadini e organizzato i lavori, così hanno accettato che fossi io a rappresentare il gruppo e quando è stato il momento di eleggere il presidente, hanno votato per me, anche se sono una donna», sorride Kourtourom che, mi spiega, ha quarant’anni e otto figli. «Mi sono sposata a sedici anni. Coltivo la terra da sempre. Una fatica enorme ma nell’ultimo anno le cose sono migliorate», continua. «Con Coopi abbiamo avuto per la prima volta accesso alla formazione, alle sementi certificate e ad un sistema idrico, sono cose che fanno davvero la differenza». Per Kourtourom le difficoltà più grosse rimangono quelle finanziarie. «Ci sono delle spese di manutenzione che vanno sostenute e che per noi sono alte. Facciamo ancora fatica ma, piano, piano, speriamo di avere sempre più verdura. Adesso con quello che coltiviamo possiamo sfamare le nostre famiglie, vogliamo arrivare ad avere abbastanza prodotti da vendere anche al mercato, così da avere i soldi per pagare le spese e irrigare altra terra».

Kourtourom non è l’unica a parlarmi delle difficoltà finanziarie.

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Abbak Khari Tahir è da tre anni il presidente di un altro “groupement” vicino al lago. L’arrivo ai suoi orti è una sorpresa. Scendendo tra le dune di sabbia del deserto si apre improvvisamente un fazzoletto di terra verdissima, i contadini sono chini sulla terra, in lontananza uno specchio d’acqua. Sembra impossibile pensare che anche qui l’acqua possa essere un problema.

«Lo è, lo è», mi dice Tahir, mentre il più piccolo dei suoi otto figli lo segue nel campo. «È la cosa più difficile. Grazie a Coopi abbiamo sviluppato un sistema idrico che ci ha permesso di coltivare parti molto più vaste di terreno. Adesso abbiamo abbastanza prodotti per tutte le nostre famiglie», racconta, spiegando però che le preoccupazioni per lui e gli altri contadini non sono finite. Sul corso d’acqua che alimenta il laghetto oltre gli orti sono stati costruite tre chiuse, controllate dai capi di altri villaggi vicini. «Per ora sono aperte ma stanno pensando di sbarrarle. Se così fosse allora il lago sarebbe prosciugato e noi non avremmo più acqua per i nostri orti». Per i contadini e le loro famiglie questo non significherebbe solo la perdita del lavoro, ma anche la perdita della loro unica fonte di alimentazione. «L’alternativa sarebbe la costruzione di due pozzi, ma per noi si tratta di una grossa spesa. Speriamo davvero che i capi-villaggio decidano di non bloccare il corso d’acqua, nel frattempo stiamo cercando di organizzarci».

Guardando il suo orto Tahir ricorda tutti i progressi che sono stati fatti nell’ultimo anno. «È una lotta quotidiana», riflette. «Qui facciamo i turni per allontanare gli animali, gli ippopotami e le gazzelle. È successo che arrivassero e distruggessero tutto. L’acqua non è l’unica difficoltà. Però guarda, le verdure continuano a crescere».

In questa terra durissima anche il più piccolo progresso è celebrato, accolto come un segno di speranza che le cose possono faticosamente migliorare.

Zara Abaktar ha settant’anni e mi accoglie nella sua capanna di paglia e fango, nel piccolo villaggio di Kikina, dove vive insieme alla sorella e al cognato. «È dura vivere qui. Non c’è lavoro. Non c’è niente», mi spiega. «La cosa bella però è che quando qualcuno ha qualcosa lo condivide con tutti».

Zara è tra le beneficiarie di un’altra azione di Coopi sulla sicurezza alimentare, che prevede l’assegnazione di 3 capre, un maschio e due femmine, alle donne in uno stato di particolare vulnerabilità. ««I bambini del villaggio le portano al pascolo. Qui spesso non si riesce a mangiare più di una volta al giorno. Le capre per me sono importantissime. Quando non c’è cibo, almeno ho il latte da bere», racconta, spiegando che alle capre ha anche dato un nome.

«Il latte è un prodotto fortemente nutritivo, l’obiettivo è quello di creare nel tempo dei piccoli allevamenti, così che, oltre al consumo interno alla famiglia, possa anche essere venduto al mercato», spiega Castronovo. «Le donne coinvolte sono 390 e il 15% sono déplacé e rétournée». Tra queste, c’è Sophia Gharbah che vive a poche capanne di distanza da quella di Zara. A 25 anni Sophia ha già quattro figli. Il suo, come quello di molte altre, è stato un matrimonio precoce. «Mi hanno fatto sposare a 13 anni», mi dice. A Kikina, Sophia è arrivata insieme al marito e ai bambini, fuggita da un villaggio al confine tra Ciad e Nigeria, attaccato da Boko Haram. «Abbiamo camminato per tre mesi, in cerca di pace. Ripartivamo ogni volta che sentivamo di essere in pericolo», continua, raccontando di come, appena arrivata qui non parlava nemmeno la lingua locale e di come tutti l’abbiano comunque aiutata. «Hanno condiviso il cibo che avevano e ci hanno aiutato a costruire la casa».

Anche a lei Coopi ha dato tre capre, un passo in avanti che sembra minimo ma che, mi racconta, ha contribuito a migliorare la sua condizione, almeno un po’. «Adesso riusciamo a mangiare due volte e poi abbiamo il latte. Anche se non c’è abbastanza cibo, c’è sempre il latte da bere, per i bambini è importantissimo».

Foto: Ottavia Spaggiari

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